L’attore, protagonista nell’omonima serie in onda da oggi su Raiuno, si racconta al QdS: “Amo follemente il mio lavoro”
PALERMO – Galeotte furono le musiche per ‘Le donne al parlamento’ di Aristofane. Così assapora il palco, le prove, gli attori, i direttori di scena, le sarte, i rituali. Presenza costante nel cinema italiano da quel ‘Romanzo criminale’ dell’esordio, il suo nome è legato ad alcune delle commedie più riuscite della generazione Duemila. Attore, pianista, compositore. Stefano Fresi lo aveva già capito a dieci anni: lo spettacolo sarebbe stato il suo mestiere.
Protagonista nei panni di ‘Kostas’, da oggi giovedì 12 settembre in prima visione su RaiUno e in box set in esclusiva su Raiplay. Per la regia di Milena Cocozza, una serie in quattro puntate tratte da ‘Le indagini di Kostas Charitos’ contenute nei romanzi di Petros Markaris editi in Italia da La Nave di Teseo.
Sullo sfondo, si stende la sterminata e bianca Atene, con addosso tutto il peso della sua storia, piena di contraddizioni e vittima di sé stessa, ma splendente di bellezze. Ricorda il nostro sud.
“Dagli aspetti naturalistici al calore della gente, c’è una corrispondenza assoluta con la Sicilia che, non a caso, ricade in quell’area dell’Italia meridionale un tempo denominata ‘Magna Grecia’. Le uniche melanzane buone come quelle siciliane le ho trovate solo dalla sorellastra ellenica”.
Cosa le appartiene della nostra sicilianità?
“Ho sempre trovato un’accoglienza commovente. Nel senso che la straordinaria capacità, che avete, di condividere il bello della Sicilia, con entusiasmo, è qualcosa che mi commuove. Anche perché io sono isolano dall’altra parte, quella sarda. Non si tratta di campanilismo, come a dire ‘le nostre cose sono più buone e più belle di quelle degli altri’, quanto piuttosto dell’essere fieri della propria terra, del posto dove si è nati, mostrandoli con orgoglio”.
Scomodo, ruvido e, al contempo, mosso da un profondo senso di giustizia. Quando si è innamorato del commissario Charitos?
“Alla prima lettura del libro. Già dall’incipit di ‘Ultime della notte’, il primo romanzo di Petros Markaris, è un personaggio pieno di sfaccettature. Kostas ha una forza comunicativa incredibile, anche solo con gli occhi. E poi non le manda a dire, è privo di qualunque diplomazia. Non si può non entrare in empatia con qualcuno così schietto, immediato, senza freni”.
Un uomo d’altri tempi, abitudinario, ostile alla tecnologia e con la curiosa passione per i vocabolari, dove cerca le risposte nascoste su un mondo che appare sempre più inafferrabile. Quali sono le parole, nelle quali la sua vita ha trovato riscontro?
“Su tutte, appartenenza. Alle mie radici sarde, a quella idea di famiglia che ho imparato. Così come appartengo alla musica, di cui sono totalmente schiavo, e al mondo del teatro, del cinema, della fiction, dello spettacolo. Un’altra parola è rispetto, ovvero la molla della pace, della serenità, della salute… nella sua massima accezione, è la natura di tutto..”.
Purtroppo, stiamo edificando una società, in cui la parola rispetto viene stuprata ogni giorno.
“Viviamo in un’epoca dove sono in atto decine di guerre, a fronte delle due più eclatanti, delle quali la cronaca continua a darci sanguinose notizie. Alla mancanza di rispetto nei confronti della vita umana, si aggiungono poi quella per il mondo animale e per l’ambiente”.
Il suo piccolo mondo privato, la casa, il cinema, il successo, l’affetto del pubblico. Tuttavia niente è paragonabile all’essere padre di Lorenzo?
“Amo follemente il mio lavoro e la chimera che rappresenta. Ciononostante, se dovessi, un giorno, smettere di farlo, sarebbe una scelta gravosa, difficilissima, che, con buona probabilità, andrebbe a ledere la mia felicità, ma potrei sopportarlo. Non potrei mai smettere, invece, di essere il papà di Lorenzo. Ogni sacrificio fatto, qualunque errore commesso, trovano un senso perché hanno portato alla sua nascita”.
Una carriera che ha preso il la con ‘Smetto quando voglio’. Quel treno che, se passa e hai la fortuna di salirci sopra, devi anche saperci rimanere.
“È proprio il talento a farti rimanere sul treno. Fa parte del gioco. Nel momento in cui scegli una vita di precariato, come quella dell’attore, sei consapevole del fatto di non avere alcuna garanzia che arriverai alla fama”.
Ed è lì, a quel punto, che serve la gavetta. La sua quanto le è giovata?
“Credo fermamente nella necessità della gavetta. Così come ritengo che uno dei mali dei nostri tempi siano i talent, perché tradiscono profondamente il mestiere di chi fa spettacolo. Una professione basata su una costruzione lenta, sulla cultura, sull’impegno, con un bagaglio di competenze acquisite nel tempo”.
Di Stefano Fresi si sa che ama stare in gruppo e si narra che organizzi feste epocali.
“La palma della gloria va a mia moglie, è lei l’organizzatrice. Le facciamo insieme, ma Cristiana (Polegri, ndr) ha delle idee fulminanti. Una festa memorabile fu quella a tema ‘Anni Ottanta’, con un andirivieni di gente impressionante. Credo siano passate da casa duecentocinquanta, trecento persone. Tutte vestite con i piumini dei ‘paninari’ e con le acconciature dell’epoca. Io, come al solito, mi sono occupato del catering: ricordo di aver cucinato quattro chili di penne alla vodka e, ciliegina sulla torta, il giorno prima, ospite in studio a ‘Quelli che il calcio’, c’era anche Tony Hadley. Uno spettacolo vedere le facce degli invitati quando ho proiettato il video del frontman degli Spandau Ballet che ci augurava buon divertimento”.