L'anniversario di quest'anno ha una valenza doppia: è il primo che si celebra dopo l'arresto, lo scorso gennaio, di Matteo Messina Denaro, il boss mafioso condannato all'ergastolo per quella strage
Strage dei Georgofili a Firenza. Trent’anni fa Cosa Nostra cercò di muovere guerra allo Stato, e al suo patrimonio artistico, per vendicarsi del 41-bis. Risultato, cinque morti e 48 feriti. Poi seguiranno le bombe di Milano e Roma. Una risposta dopo le sentenze dei processi.
L’anniversario, il trentesimo, di quest’anno ha una valenza doppia: è il primo che si celebra dopo l’arresto, lo scorso gennaio, di Matteo Messina Denaro, il boss mafioso fu condannato come mandante delle stragi insieme a Bernardo Provenzano, boss catturato l’11 aprile 2006 che morì poi in carcere il 13 luglio 2016.
Ecco cosa successe quella notte a Firenze, le indagini, il processo e le sentenze.
Strage di via dei Georgofili, la vendetta della mafia contro lo Stato
La ricostruzione
27 maggio 1993: notte fonda a Firenze, è da poco passata l’una del mattino. In via dei Georgofili, in pieno centro, a due passi dal Museo degli Uffizi, c’è una grande esplosione, che risuona in tutta la città. Un furgone Fiat Fiorino di colore bianco, carico con 250 chili di esplosivo, deflagra. La detonazione distrugge la Torre dei Pulci, sede dell’Accademia che dà il nome alla via.
Sotto le macerie della torre muoiono Angela Maria Fiume, custode dell’Istituto, e gli altri membri della famiglia Nencioni: il marito Fabrizio e le figlie Nadia (9 anni) e Caterina (appena 2 mesi). Prende fuoco, inoltre, un edificio della stessa strada, dove abitava Dario Capolicchio, studente universitario di 22 anni, la quinta vittima della strage. Quarantotto le persone che rimangono ferite.
Ma, oltre ai morti e ai feriti, quella bomba provocò anche gravi danni al patrimonio storico-artistico della zona: la Chiesa dei Santi Stefano e Cecilia e il complesso monumentale degli Uffizi. Andarono distrutti alcuni dipinti di valore prestigioso e circa il 25% delle opere presenti nel museo fu danneggiato. A causare la detonazione, una miscela esplosiva posta in una vettura parcheggiata sotto la torre.
Il periodo delle stragi
Quest’episodio dinamitardo rientra nel cosiddetto “periodo delle Stragi” (cominciato con Capaci e via D’Amelio): alla bomba del 27 maggio seguì quella al padiglione di Arte contemporanea di via Palestro, a Milano (27 luglio 1993), e – a distanza di cinque minuti l’una dall’altra – le esplosioni presso la Basilica di San Giovanni in Laterano e la chiesa di San Giorgio al Velabro, a Roma, a ventiquattrore dall’attentato di Milano. Come a Firenze, la bomba del 27 luglio provocò cinque morti – tre vigili del fuoco, un vigile urbano e un senzatetto – e il ferimento di 12 persone (a Roma i feriti furono 22), oltre al danneggiamento degli edifici e dei luoghi di culto coinvolti.
In questa scia, si considerano anche l’attentato di via Fauro del 14 maggio dello stesso anno, di poco precedente alla strage dei Georgofili, che aveva come obiettivo Maurizio Costanzo e nel quale il giornalista si salvò per miracolo (ma rimasero ferite 24 persone); e quello (mancato) allo Stadio Olimpico di Roma: una bomba piazzata in un auto che non esplose solo per un contrattempo. Era il 23 gennaio 1994: era il “colpo di coda” della mafia stragista contro lo Stato.
La verità processuale sulla strage in via dei Georgofili
Secondo la verità stabilita in sede processuale, i mandanti e gli autori materiali della strage di Firenze erano mafiosi con l’obiettivo di creare “una sorta di stato di guerra contro l’Italia”, da attuare con il ricorso a una precisa strategia di tipo terroristico ed eversivo, che andasse oltre i metodi e le finalità della criminalità organizzata visti sino a quel momento. Cosa Nostra, con quelle bombe, voleva “costringere lo Stato alla resa davanti alla criminalità mafiosa”. Rispetto alle vendette perpetrate contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, puniti l’anno precedente in attentati in cui i giudici erano i soli e unici target della Cupola, con quelle azioni la mafia compiva una specie di “salto”.
Le sentenze
Le sentenze hanno inoltre ricordato che, dopo i fatti del ‘92, lo Stato aveva reagito con le norme sul carcere duro per i mafiosi (il 41-bis), favorendo allo stesso tempo i collaboratori di giustizia e i pentiti. Fu una vera e propria svolta nell’atteggiamento dello Stato, che destrutturò la “presunzione di onnipotenza e di libertà” dei capimafia.
Fu proprio un trafficante di opere d’arte a spingere la mafia ad attaccare il patrimonio artistico della nazione. Questi spiegò infatti ai capimafia: “Ucciso un giudice, questi viene sostituito; ucciso un poliziotto, avviene la stessa cosa. Ma distrutta la Torre di Pisa, veniva distrutta una cosa insostituibile, con incalcolabili danni per lo Stato”.