Nel corso del decennio che va dall’anno accademico 1981-82 all’anno accademico 1991-92, si tenne un corso, in Bocconi, dedicato a “Valori imprenditoriali e comportamento strategico”. Il corso, di tipo seminariale, inquadrato nell’ambito di economia aziendale avanzata, era originale e innovativo non solo nell’argomento e nell’approccio, ma nella organizzazione e metodo di lavoro. I docenti erano affiancati da una “equipe” di giovani assistenti di valore (tutti destinati a brillanti carriere accademiche e professionali), sicché il corso era in realtà una vera e propria ricerca collettiva.
Nell’ambito della stessa si approfondivano pochi casi aziendali per anno accademico, li si analizzava in modo approfondito insieme agli allievi, in gruppi ristretti, sulla base di una adeguata documentazione e li si discuteva in aula secondo ipotesi interpretative emerse nel corso dell’analisi. Successivamente si invitavano a dibattere in aula i rappresentanti dell’azienda studiata, sia personaggi di vertice che quadri dirigenziali e tecnici. In questo modo si andava veramente a fondo nella comprensione dell’impresa e dei collegamenti tra valori imprenditoriali e comportamenti strategici.
In quegli anni, nel campo delle strategie aziendali, i testi dominanti, di origine americana, erano ponderosi volumi che impostavano la strategia aziendale come una serie di teoremi, illustrati da tanti grafici, che cercavano di insegnare certezze, inquadrate in un mondo stabile, immutabile e governabile. La astratta e ingenua concezione dell’impresa sottostante a questo approccio era quella di un luogo di perfetta razionalità, dove persone eccellenti e bene addestrate prendono decisioni razionali e perfette. Chi si comportava secondo le metodologie illustrate nei manuali non poteva sbagliare. Eppure c’era già stata la grande inflazione e recessione degli anni Settanta; la crisi petrolifera con l’esplosione del prezzo del petrolio; una conclamata crisi americana sia economica che politica (pensiamo agli anni della presidenza Carter); il forte sviluppo del Giappone che tanta ansia generò negli Usa; il fiorire delle nuove tecnologie che rimettevano continuamente in discussione i vecchi equilibri. E, da noi, c’erano stati i durissimi anni Settanta, con l’incrocio tra il terrorismo nelle strade, l’esasperazione sindacale con l’inagibilità delle grandi fabbriche, le severe ristrutturazioni aziendali; le grandi crisi, quasi mortali, di Olivetti, Fiat e altre grandi imprese; la marcia dei quarantamila a Torino. E sin dagli anni Settanta Peter F. Drucker aveva avvertito che eravamo entrati in “The Age of Discontinuity”. E nel 1989 aveva ripreso e sviluppato il tema nel suo libro, a mio giudizio, più importante: “The New Realities: in Government and Politics, in Economy and Business, in Society and in World View”.
Come osare “vendere” certezze in un mondo oggetto di così profonde incertezze, discontinuità e trasformazioni? Nella lezione conclusiva dell’anno accademico 1984-85 ricordavo che Juanita Kreps, segretaria al commercio del governo Usa, lasciando la sua carica nel 1979, aveva affermato che non se la sentiva di tornare al suo vecchio lavoro di docente di economia alla Duke University perché francamente “non saprei cosa insegnare”.
continua…

