PORT SUDAN – Con i suoi 1.861.484 chilometri quadrati, il Sudan è il terzo Paese del continente africano per espansione territoriale. Una nazione di passaggio, con un ruolo strategico nelle rotte marittime del Mar Rosso, ma anche cuore nevralgico e non distante da quello geografico dell’Africa nera. Uno snodo fondamentale non privo di paradossi: da un lato del Mar Rosso c’è proprio Port Sudan, dove è in atto un vero e proprio sbarco di gruppi umanitari che operano nell’area devastata dalle guerre civili in atto; dall’altro, a circa 300 chilometri di distanza, c’è Jeddah, dove la ricchezza dell’Arabia Saudita continua a prosperare. Uno specchio drammatico e reale di due luoghi tanto vicini ma così lontani.
Il conflitto armato in Sudan è esploso il 15 aprile 2023
Il conflitto armato in Sudan è esploso il 15 aprile 2023 tra le Forze armate sudanesi (Saf) e le milizie paramilitari Rapid support forces (Rsf). Nelle intenzioni, entrambi i gruppi avrebbero dovuto operare per ricostruire il paese dopo la tirannia di Omar Hassan Ahmad al-Bashir, ex ufficiale militare e politico sudanese che ha governato dal 1989 al golpe del 2019. Da quel momento, così come avvenuto in Nord Africa dopo la primavera araba, il caos più totale. A due anni dall’inizio della guerra, secondo i dati diffusi da Coopi, sono oltre 12 milioni gli sfollati sudanesi, con l’80% proveniente solo dalla capitale Khartoum, ridotta a un barrio da guerriglia cittadina. Per le Nazioni unite, si tratta del conflitto che ha prodotto la più grande crisi di sfollamento al mondo. La guerra ha disintegrato il tessuto economico e sociale del paese, ricco di oro e di quelle “terre rare” in grado di sopperire alle richieste di mercato su scala globale. Più della metà della popolazione sudanese – circa 30 milioni di persone – dipende ormai interamente dagli aiuti umanitari per sopravvivere.
“Quegli aiuti che faticano sempre più ad arrivare. L’accesso a cibo, acqua potabile, cure mediche e rifugi, in svariate aree del paese, è compromesso in maniera irreversibile. Nelle regioni più colpite, come il Darfur e Al Jazirah, interi villaggi sono scomparsi sotto le macerie o svuotati dai bombardamenti. Proprio lì operiamo noi, tentando di distribuire il minimo indispensabile per garantire la sopravvivenza di quelle popolazioni”.
A raccontarlo al Quotidiano di Sicilia è Chiara Zaccone, 34enne messinese con alle spalle una lunga esperienza nell’assistenza umanitaria. Prima in Madagascar, Repubblica Centrafricana e Ciad. Adesso in Sudan, dove ricopre il ruolo di capo missione per Coopi, una delle Ong italiane che contribuisce da oltre 60 anni al “processo di lotta alla povertà e di crescita delle comunità con le quali coopera nel mondo, intervenendo in situazioni di emergenza, di ricostruzione e di sviluppo, per ottenere un miglior equilibrio tra il nord ed il sud del pianeta”.
Dalle zone più interne, dove è approdata nel dicembre 2023, a pochi mesi dallo scoppio della guerra civile, al necessario spostamento degli ultimi mesi per motivi di sicurezza nella città costiera di Port Sudan, quella di Chiara Zaccone è una vita da italiana con valigia e soggetta al coprifuoco militare. La libertà è un concetto che non appartiene alle latitudini nelle quali opera.
“Nel 2025, il numero di bambini affetti da forme acute di malnutrizione ha superato i 3 milioni. Oltre 755 mila persone si trovano in condizioni di carestia estrema, più di 8,5 milioni vivono in emergenza alimentare. Sono i numeri che raccontano una catastrofe umanitaria in atto. E che, al momento, sembra senza fine. Come per il vicino Darfur”, spiega Zaccone. Dopo la maturità classica a Messina, gli studi a Torino e il lavoro a Roma. Da qui, la partenza per il Madagascar con il Servizio civile e all’interno di una Ong romana. Tanti dubbi e un adattamento complesso, con culture distanti da quelle europee. Ma le differenze culturali e religiose, nel continente africano, non sono gli unici aspetti da tenere in considerazione.
La sanità in Sudan è al collasso
“La sanità in Sudan è al collasso. L’80% delle strutture ospedaliere ha cessato ogni attività: non ci sono medici, non ci sono farmaci, non c’è elettricità. E solo pochi centri continuano a operare”, aggiunge la messinese. E adesso la paura non appartiene più soltanto all’instabilità politica e militare dei territori nei quali sono presenti le organizzazioni non governative che portano aiuti umanitari a chi non ha più una casa né una vita da vivere. Quel che spaventa, adesso, è anche ciò che potrà accadere con l’amministrazione Trump. Il tycoon ha tagliato le finanze pubbliche destinate agli aiuti umanitari. Questo per una riforma che per Trump dovrebbe modificare l’esistenza stessa delle ong, per evitare che da organizzazioni non governative per aiuti umanitari divengano strumenti di influenza politica, come proprio nel Mediterraneo si è a più riprese verificato nel corso dell’ultimo decennio.
Il Sudan è oggi un mosaico di zone di guerra
Ma senza aiuti, in Sudan come in Darfur, non è possibile proseguire la propria attività. E i campi profughi, “le cui condizioni igieniche tra sovraffollamento e assenza di latrine, sono terreno fertile per le epidemie” rischiano di diventare le città del futuro, aggiunge la cooperante. Questo perché, militarmente, il Sudan è oggi un mosaico di zone di guerra. Il 26 marzo scorso, le Saf hanno annunciato di aver ripreso il controllo della capitale Khartoum, dopo settimane di battaglie urbane. Ma la vittoria è solo parziale. Perché le Rsf mantengono il controllo di vaste aree del paese e hanno addirittura proclamato un governo parallelo.
Nel Darfur e ad Al Jazirah, invece, le violenze assumono connotazioni etniche, con segnalazioni di massacri e fosse comuni. “L’Egitto ha accettato milioni di sudanesi, ma adesso ha dovuto restringere il passaggio alle frontiere anche a causa della situazione di Gaza. E l’instabilità geopolitica è davvero tangibile”. Secondo l’Onu, sono circa due milioni i bambini sotto i cinque anni che muoiono ogni anno in Africa centrale e occidentale. Il Fondo delle Nazioni unite per l’Infanzia (Unicef) ha riferito che la cifra costituisce quasi un terzo di tutti i decessi a livello mondiale in quella fascia di età. Nel vicino Ciad sono 169 i bambini su 1000 nati che muoiono prima del loro quinti compleanno. In Somalia arrivano addirittura a quota 180.
“Credo che la situazione resterà a lungo instabile. Ci vorranno anni prima di pensare di tornare a una situazione in cui sarà possibile per la popolazione l’accesso a beni primari. Il Sudan è uno di quei paesi che, già prima dello scoppio della guerra civile tra Saf e Rsf, viveva in condizioni di estrema difficoltà. Purtroppo non è l’unico – aggiunge la capo missione messinese – per questo la nostra presenza qui è fondamentale”.

