Il suono del prog arriva in Sicilia con la Pfm: “Veniamo spesso in tour, troviamo tanti amici” - QdS

Il suono del prog arriva in Sicilia con la Pfm: “Veniamo spesso in tour, troviamo tanti amici”

redazione

Il suono del prog arriva in Sicilia con la Pfm: “Veniamo spesso in tour, troviamo tanti amici”

Gino Morabito  |
giovedì 25 Luglio 2024

Sono due le tappe in programma in Sicilia per la Pfm: il 31 luglio davanti la Cattedrale di Ragusa e il 1° agosto all’Ara di Ierone a Siracusa

PALERMO – Suonare molto, suonare bene. Live, senza macchine, registratori né computer. Uno stile unico e inconfondibile, quello di Premiata Forneria Marconi, frutto di scelte ardite, molta tenacia e felicità di sperimentare. Da sempre contemporanea a ciò che voleva fare, non ha mai imitato nessuno, continuando a evolvere per rimanere sé stessa: la band italiana ambasciatrice del prog nel mondo.

Per rinnovare l’abbraccio fra il rock e la poesia, torna sui palchi di tutta Italia con “Pfm canta De André anniversary”, celebrando il fortunato sodalizio con il cantautore genovese. Prodotto da D&D Concerti, il tour vede sul palco Franz Di Cioccio (voce e batteria), Patrick Djivas (basso), Marco Sfogli (chitarra elettrica), Alessandro Scaglione (tastiere), Eugenio Mori (batteria) e Lucio Fabbri (violino) con special guest Luca Zabbini, leader dei Barock Project, e Michele Ascolese, chitarrista storico di Faber.

Due tappe in Sicilia per la Pfm

Due le tappe in Sicilia: il 31 luglio nell’incantevole cornice del sagrato della cattedrale iblea di San Giovanni Battista, una iniziativa della Marcello Cannizzo Agency in collaborazione con il Comune di Ragusa; l’1 agosto nella suggestiva scenografia naturale dell’Ara di Ierone, uno spettacolo che fa parte del cartellone di eventi estivi “Ara World Fest” a cura del Parco archeologico di Siracusa.

“Quello con questa splendida terra è un rapporto cinquantennale. Ci veniamo spesso in tour, il pubblico siciliano è particolarmente vivo e presente e, ogni volta, proviamo la grande gioia di incontrare tanti amici”.

Una tournée per raccontare l’umanità poetica di quello che sarebbe diventato l’artista più ascoltato in Italia. A distanza di quarantacinque anni qual è l’emozione che provate?
“Ci siamo resi conto, per l’ennesima volta, che quei due dischi in concerto sono straordinari. Quando passa così tanto tempo, talvolta non fai neanche più caso che sei stato tu a realizzarli. Li ascolti come fossi quasi un semplice fruitore. La prima emozione è quella di dire: ‘Che soddisfazione, insieme a Fabrizio abbiamo fatto un capolavoro!’”.

Quello del 1979 fu il primo esempio di collaborazione tra due modi completamente diversi di concepire ed eseguire le canzoni. Com’è che andò?
“C’eravamo trovati in un concerto in Sardegna e l’indomani Fabrizio ci invitò a pranzo a casa sua. Venne fuori l’idea di provare a fare qualcosa insieme. Cominciammo a parlarne con le rispettive case discografiche e con alcuni giornalisti a noi più vicini, e non ci fu nessuno che ci incoraggiò: ‘Siete pazzi!’ ci sentivamo ripetere. A lui dicevano: ‘Fabrizio, non si capirà una sola parola, ti seppelliranno sotto un milione di watt!’. E a noi di rimando: ‘Se vi comprometterete con un cantautore, il vostro pubblico vi si rivolterà contro!’”.

Tuttavia il progetto partì ugualmente.
“Da autentico anarchico qual era, Fabrizio volle fare il tour. Sul palco aveva solo due spie e due monitor, da cui sentiva la sua voce e la chitarra ad altissimo volume. Nient’altro. Cosicché, quando a fine tournée, andammo in sala registrazione e mettemmo su il 24 piste, realizzò per la prima volta ciò che realmente accadeva dal vivo. Casualmente ascoltammo ‘La canzone di Marinella’ e allora sbiancò: ‘Questo è quello che suonavamo?’. Inaspettatamente, fece una cosa che, per chi ha lavorato con lui e sa quanto perfezionista fosse come produttore, ha davvero dell’incredibile: ‘Chiamatemi quando tutti i missaggi saranno stati ultimati. Voglio godermi la sorpresa’. E uscì dalla sala”.

Fabrizio, lo avete cercato o trovato?
“Lo abbiamo cercato. Era un altro artista al quale stava stretto qualsiasi tipo di vestito, da quello di cantautore a solo poeta o musicista. Quando ci fu la possibilità di andare a vedere cosa ci fosse oltre l’orizzonte, lui accettò. Questo ha creato un momento, nella storia della musica italiana, irripetibile. Nei nostri concerti non mancano mai dei brani di Fabrizio, perché sono anche nostri, e quel modo particolare di eseguirli è solo di Pfm, come lui stesso riconosceva: la capacità di dare un nuovo abito musicale a delle canzoni straordinariamente poetiche”.

Si ha come la sensazione che il principe libero sia sempre qui, sigaretta accesa e innamorato di tutto. Cos’è che più vi manca?
“Per ognuno di noi Fabrizio è sempre presente. Appartiene alle nostre vite, al nostro quotidiano, alla società italiana, come una specie di presenza in carne e ossa. Non è un semplice mito da idolatrare o una leggenda da tramandare, la grandezza di De André risiede nella sua profonda umanità. Più di ogni cosa, ci manca la certezza che si aveva, quando affrontavi con lui qualsiasi tematica, di stare parlando con qualcuno che ti avrebbe in qualche modo illuminato. Quel suo modo di vedere le cose diverso da tutti gli altri. Ci raccontava come erano nati ‘Amico fragile’ o “Giugno ‘73’ e ti rendevi conto che non c’era una sola parola che avresti potuto cambiare”.

Continuate a portare in giro la sua ‘buona novella’ con concerti sold out in ogni parte del globo, date che raddoppiano e triplicano. Perché anche le giovani generazioni si appassionano al suono del prog?
“Apparteniamo a un’epoca nella quale, se volevi suonare, dovevi ascoltare i 45 giri, cercando di rubare il più possibile: ora si trattava di rock, ora di jazz, di classica, di blues… Negli anni abbiamo sviluppato un gusto e un interesse per ogni genere musicale, divenendo così molto duttili nelle performance. Un ragazzo, che oggi viene a vedere Pfm dal vivo, assiste a un concerto senza macchine, registratori né computer. La nostra è una proposta artistica alternativa: suoniamo la libertà”.

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