Mario Chiesa beccato con 7 milioni di lire
Il 17 febbraio 1992 i Carabinieri si recavano nel “Pio Albergo Trivulzio” e beccava il suo presidente, Mario Chiesa, con una tangente di sette milioni. Subito, Bettino Craxi difese il membro della “famiglia” socialista dicendo che non era niente. Come Al Capone quando i federali indagavano sui suoi conti fiscali.
Invece non fu così. Francesco Borrelli, Procuratore Capo di Milano, e i suoi moschettieri – tra cui Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo e Francesco Greco – cominciarono un’azione giudiziaria senza precedenti, approfittando del malcontento enorme che serpeggiava fra i cittadini italiani.
Quel malcontento era frutto di un sistema partitico derivato dalla legge elettorale proporzionale, che toglieva ai cittadini il diritto di decidere chi dovesse governarli e lo lasciava in mano ai segretari di partito, i quali, “attorno al caminetto”, decidevano come si dovesse comporre la coalizione, chi dovessero fare presidente del Consiglio, ministri e altri.
Questo sistema della Prima Repubblica portava con sé la triste conseguenza di produrre un Governo all’anno, qualche volta due e altre volte il cosiddetto governo “balneare” perché cominciava a giugno e finiva a settembre.
Nonostante ciò, la ricchezza del Paese cresceva, ma con essa una fortissima inflazione che aveva portato i titoli di Stato a pagare oltre il quindici per cento di interessi, con qualche punta al venti per cento. Un disastro per il debito pubblico e per tutta l’economia, che faceva fatica a compensare in parte l’enorme inflazione.
Cosicché, nel 2001, il Governo presieduto da Romano Prodi, il cui ministro dell’Economia era Carlo Azeglio Ciampi, dovette ragionare l’entrata della nostro Paese nell’Euro e dovette soggiacere al diktat tedesco che impose un cambio 1.936,27 per un Euro. Questo cambio fece saltare tutti i prezzi, che nel volgere di poco tempo raddoppiarono, ovviamente dopo l’entrata in vigore della moneta europea il primo gennaio 2002.
Ma torniamo al crollo del sistema partitico sotto i micidiali colpi del pool di Mani pulite. Pian piano tutti i vertici furono azzerati, i tesorieri messi in galera e Bettino Craxi, dopo il clamoroso discorso alla Camera, fuggì nella sua roccaforte di Hammamet, in Tunisia.
Subito dopo, approfittando del vuoto partitico e politico, emerse un imprenditore visionario, Silvio Berlusconi, il quale, teatralmente e supportato dai suoi tanti mezzi di comunicazione, “scese in campo” forte della sua popolarità a livello nazionale.
Il popolo italiano aspettava tale svolta e dette credito a Berlusconi, il quale riuscì a ottenere, con l’allora emergente Umberto Bossi, una grande maggioranza nelle Camere. Poi Bossi lo fece cadere, anche se poco dopo Berlusconi tornò in sella.
Al Cavaliere bisogna rimproverare che non utilizzò la sua maggioranza per fare le riforme che servivano al Paese, preso da beghe e begucce di poco conto, e soprattutto dai favoritismi ai suoi colleghi imprenditori. Basti pensare al salvataggio perpetuo di Alitalia che – da allora a oggi – ci è costato dieci miliardi e più.
Da un canto abbiamo criticato aspramente Berlusconi per questa sua carenza istituzionale, nonostante l’abbiamo votato nel 1994 per sottolineare la novità, ma non possiamo disconoscere che egli diventò bersaglio di una Magistratura di parte che tentò di screditarlo giudiziariamente, non potendolo fare politicamente.
Cominciò la Seconda Repubblica, per la quale l’attuale Presidente della Repubblica inventò quella buona legge elettorale, maggioritaria e proporzionale, denominata Mattarellum, che ha consentito una certa governabilità al nostro Paese, anche se in questi trent’anni tale governabilità non ha prodotto una conseguente crescita, com’era auspicabile.
È triste pensare che vi siano capi partito che oggi ritengono di ritornare alla legge elettorale proporzionale anziché renderla ancor più maggioritaria con l’elezione diretta del Capo dello Stato o comunque con una maggioranza inattaccabile per tutta la legislatura, salvo il meccanismo della cosiddetta sfiducia costruttiva, che prevede come non si possa sfiduciare un Governo senza un altro pronto a subentrare.
Draghi ha detto che non intende occuparsi di legge elettorale, ma farebbe bene a farlo perché è l’unico che possa mettere d’accordo la sua variegata maggioranza.