Un conflitto iniziato quasi dieci anni fa. Dal 2014 all’invasione russa del 2022: intervista esclusiva al giornalista al fronte, Luca Steinmann
“In guerra la verità è la prima vittima”. L’aforisma, attribuito al grande drammaturgo ateniese Eschilo, spicca nella sua attualità anche a millenni di distanza e ci sembra particolarmente adatto per la grave, triste e complessa vicenda russo-ucraina, caratterizzata dal conflitto scoppiato il 24 febbraio dello scorso anno (con l’invasione delle truppe di Mosca) ma anche dagli eventi politici, sociali e bellici avvenuti negli otto anni precedenti, che rappresentano la miccia di questa guerra e che – proprio in nome della verità – non possono essere taciuti, ma devono invece essere analizzati per una fedele ricostruzione storica, scevra da partigianerie o da inopportune logiche da tifo.
Bisogna ribadire che chi sceglie di imbracciare le armi ha sempre torto e che “l’operazione militare speciale” ha portato dolore, morte e distruzione presso la popolazione civile e gli inermi. Dolore, morte e distruzione, però, hanno colpito dal 2014 anche gli abitanti delle regioni russofone del Donbass, quelle cioè che si sono autocostitute come repubbliche autonome dopo gli eventi di Maidan. Il processo culminato con la destituzione del governo filorusso guidato da Viktor Janukovich, infatti, portò profondi mutamenti nei rapporti tra Kiev e le aree appartenenti al territorio ucraino che – per storia, cultura e tradizione – sono da sempre legate a Mosca.
A confermarlo, come abbiamo raccontato nell’inchiesta pubblicata sul QdS lo scorso 6 ottobre, anche gli esiti delle presidenziali ucraine del 2019. Il primo turno di quella consultazione, nei distretti del Donbass, vide la netta affermazione del movimento filorusso guidato da Yuriy Boyko. Una “rivoluzione” quella del gennaio-febbraio 2014 in cui, al netto della spontanea sollevazione popolare nata dalle politiche “anti-Ue” del governo, pare abbiano avuto un ruolo – in termini politici, economici e militari – anche gli Usa. Di sicuro c’è che, proprio nei giorni più caldi della rivolta, gli allora senatori John McCain e Chris Murphy, uno repubblicano l’altro democratico, si recarono in piazza Maidan. Il primo, in particolare, arringò la folla con un celebre discorso.
Certo, dietro questo evento potrebbe esserci soltanto la volontà statunitense di “mettere il cappello” su una sollevazione popolare in chiave anti-russa eppure, guardando anche alla storia del XX secolo, la sensazione è che Washington abbia avuto un ruolo nella vicenda, non tanto nelle fasi iniziali (la protesta, è cosa inequivocabile, partì in maniera libera e spontanea) quanto in quelle successive e che ebbero maggiori ripercussioni sugli equilibri geopolitici dell’area.
E qui torniamo agli attriti tra Ucraina e aree russofone e alla scintilla dell’attuale confitto. Le politiche dei governi post rivolta, infatti, ebbero da subito una chiara impronta antirussa e – questa è la sensazione – ruppero una serie di equilibri esistenti sin dalla dissoluzione dell’Urss. Una nuova situazione che, nell’immediatezza, portò alle tensioni in Crimea e alla contestata annessione della regione alla Federazione russa e poco dopo alla costituzione della Dpr (Repubblica popolare di Dontesk) e della Lpr (Repubblica popolare di Lugansk). Da questi fatti partì il conflitto tra le due autoproclamate repubbliche e l’esercito regolare ucraino, scandito da episodi particolarmente cruenti come l’incendio della casa dei sindacati di Odessa nel maggio del 2014.
Un conflitto a cui, in linea teorica, ha posto fine il Protocollo di Minsk firmato nel settembre dello stesso anno. Dopo un’iniziale fase di “cessate il fuoco” si è innescata una sorta di “guerra a bassa intensità”, che è stata comunque portatrice di morti e di lutti. Una situazione resa ancor più drammatica dall’invasione russa del 24 febbraio e da quel conflitto che oggi sembra ancora lontano da una soluzione. Proprio in questo momento, però, è necessario tornare a parlare di pace. E chi di dovere, Europa in testa, deve avere la forza di creare le condizioni affinché i contendenti si siedano a un tavolo e le armi possano tacere.
Luca Steinmann: parte della popolazione ucraina non sempre favorevole a Kiev
Il giornalista ha seguito la guerra fin dall’inizio raccontando il fronte russo: forte propaganda da entrambe le fazioni
Per approfondire le complesse dinamiche legate al conflitto russo-ucraino abbiamo intervistato Luca Steinmann, reporter di guerra che ha raccontato il conflitto sin dalle fasi iniziali. Un punto di vista particolarmente rilevante il suo, dal momento che è stato uno tra i pochissimi giornalisti occidentali ad aver vissuto e narrato il conflitto dall’altro lato del fronte, ovvero quello delle milizie filorusse e delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk.
Come nasce il tuo impegno di reporter di guerra in Ucraina e in Donbass?
“Faccio questo mestiere da diversi anni e sono stato in svariati teatri di guerra. Sono andato nel Donbass subito prima che iniziasse l’ultima fase del conflitto, quella aperta il 24 febbraio 2022, quando la Russia ha attaccato l’Ucraina. Qualche giorno prima sono entrato nel Donbass e nei territori filorussi controllati dalle Repubbliche passando dalla Russia. In quel momento mai mi sarei aspettato che, un giorno dopo il mio ingresso, la Russia avrebbe ordinato di chiudere le frontiere della regione di confine, impedendo quindi ad altri giornalisti e osservatori di essere sul posto e di seguire tutte le fasi che avrebbero portato all’attacco del 24 febbraio. Sono stato nei territori ucraini controllati dalle milizie filorusse e dai russi loro alleati fino alla fine del novembre 2022. Parlo di Ucraina controllata dai russi e non Donbass, perché sono stato anche nei territori meridionali del Paese strappati al controllo di Kiev, quindi nella regione di Zaporižžja, nella centrale nucleare di Enerdogar e nella regione di Kherson”.
La rivoluzione di Maidan e gli altri eventi del 2014 sono stati il casus belli che ha poi portato all’attuale fase del conflitto. Quali sono i sentimenti della popolazione civile nel Donbass e nell’Ucraina orientale?
“Oggi nei territori che sono sotto il controllo dei filorussi dal 2014 la popolazione, in termini maggioritari, è meglio predisposta nei confronti dei russi rispetto al governo di Kiev. Infatti, chi era ostile a Mosca o preferiva vivere in Occidente, ha avuto otto anni di tempo per lasciare quelle regioni. Gran parte di coloro che oggi vivono in quelle aree per convenzione, convenienza o consuetudine accetta di buon grado la convivenza con i russi. Discorso diverso va fatto per altri territori, sempre della parte orientale dell’Ucraina, che sono passati sotto il controllo di Mosca dopo l’avvio della cosiddetta operazione militare speciale. Mi riferisco agli oblast di Kherson e Zaporižžja, ma anche ai territori del Donbass in mano all’Ucraina come Mariupol e ampie zone della regione di Lugansk. Paradossalmente Mariupol, che è stata rasa al suolo dai combattimenti, è un territorio in cui in prima persona ho visto un’ostilità minore verso la Russia rispetto a quella che c’è da altre parti. Tuttavia va detto chiaramente che la sensibilità, anche di persone russofone e di cultura russa che vivono in quei territori e che non sono state sotto i russi in questi otto anni, è mediamente molto diversa rispetto a quella di coloro che, per esempio, hanno abitato le aree controllate dalla due repubbliche autoproclamate. Essere di lingua e cultura russa non sempre corrisponde a essere politicamente affini a Mosca”.
L’operazione militare russa avviata nel febbraio del 2022 ha cambiato – e se sì in che modo – i sentimenti della popolazione del Donbass e delle regioni limitrofe nei confronti della Federazione russa o del Governo Zelensky?
“Anche qui bisogna differenziare: la situazione è molto diversa da regione a regione. Anzitutto gran parte delle popolazioni che vivono dal 2014 nei territori filorussi sono sempre state esposte al fuoco. Quindi molti di loro hanno in un primo momento vissuto questo attacco di Mosca come una speranza che il fronte si allontanasse e che l’arrivo dei russi significasse la pace. Su molti fronti sono stati smentiti, perché in quei teatri la Russia non è avanzata come avrebbe voluto e quindi la linea di fuoco rimane molto vicina. Tant’è vero che Donetsk, la città più importante del Donbass, tuttora è quotidianamente esposta al fuoco. Anzi, non è mai stata così esposta al fuoco. Bisogna dire chiaramente che, in certi territori del Donbass, le condizioni della popolazione sono peggiorate in virtù dell’inasprirsi dei combattimenti, che non hanno tuttavia prodotto cambiamenti geografici particolarmente rilevanti. Per quanto riguarda, invece, le popolazioni dell’Ucraina del Sud il discorso è molto interessante. Ampie fette di popolazione si mostrano chiaramente ostili alla Russia, anche tante persone che, prima del 24 febbraio, facevano riferimento a partiti considerati filorussi o comunque allergici al governo di Kiev. E la Russia si sta confrontando con questa reazione della popolazione che, per certi versi, è inaspettata da molti ma che però non è totale. Ci sono certamente delle fette di popolazione dell’Ucraina meridionale che simpatizzano con i russi ma ci sono, sicuramente, anche forti resistenze”.
I referendum d’annessione voluti dalla Russia, disconosciuti quasi unanimemente dalla comunità internazionale, hanno suscitato un vivace dibattito e l’accusa di essere “consultazioni farsa”. Come li hai vissuti da reporter? Che giudizio dai di quelle votazioni?
“Si è trattato di un passaggio formale per ratificare un qualcosa già deciso dalla Russia. Sicuramente, nei territori controllati dai filorussi, la posizione di gran parte della popolazione era favorevole, perché sono favorevoli ai russi e perché molti di loro pensano sia meglio vivere sotto la Russia che in uno di questi ‘statarelli’ non riconosciuti da nessuno come le due repubbliche di Dontesk e Lugansk. Tutt’altro discorso, invece, va fatto per le aree meridionali dell’Ucraina, dove gli umori sono molto diversi”.
Come giudichi la “strategia comunicativa” usata da Russia e Ucraina in questi quasi dodici mesi di guerra? Quanto è stata influente la propaganda da ambo le parti?
“Molto, perché le guerre oggi si combattono sul piano ibrido e sul piano simmetrico, quindi non più soltanto con i missili e la fanteria ma anche, naturalmente, con la comunicazione, con la conquista delle menti e dei cuori delle popolazioni e delle truppe presenti sui territori interessati ai conflitti. Da questo punto di vista è inutile negare che la Russia stia perdendo su tutti i fronti, avendo adottato una modalità di comunicazione che è pensata ‘su misura’ per la popolazione russa. I messaggi che diffonde, quindi, vengono percepiti dal di fuori addirittura come propaganda anti russa. Questo, chiaramente, non può costituire un successo dal momento che lo Stato russo punta a espandere i propri confini”.
Come giudichi la decisione di Zelensky che, nel marzo dello scorso anno, ha sospeso l’attività dei partiti di opposizione filorussa in Parlamento?
“Io non posso dare giudizi perché racconto la guerra dal lato russo e non da quello ucraino. Certamente in ogni guerra si assiste a una restrizione delle libertà. È avvenuto in Ucraina e, dal 24 febbraio, è avvenuto in maniera importante anche in Russia. Bisogna interrogarsi su un tema: quello riguardante il rapporto tra guerra e libertà. Fino a che punto, in nome della guerra, la libertà può essere limitata e fino a che punto questo è producente per il conflitto? Io non sono sicuro che sia sempre così”.
Sulla base della tua esperienza sul campo, che sensazioni hai sugli sviluppi del conflitto e sulla possibilità di arrivare alla pace?
“Ci sono state tre fasi del conflitto. La prima coincide con l’inizio della cosiddetta operazione militare speciale, che doveva essere di fatto un putsch. I russi avrebbero dovuto marciare su Kiev e prenderne il possesso. Nei loro calcoli il Governo Zelensky e il sistema di potere ucraino sarebbero collassati velocemente, consentendogli di instaurare un governo ‘amico’. Questo obiettivo, come sappiamo, è fallito clamorosamente. La Russia ha quindi aperto una nuova fase del conflitto, ritirandosi da Kiev e concentrando le proprie azioni militari nel Donbass, soprattutto intorno a Mariupol, e nell’Ucraina del Sud, in particolare intorno a Kherson, provando a sfondare il fronte e ad arrivare fino a Odessa, così da raggiungere la regione russofona della Transnistria (che si trova in Moldavia e che è prevalentemente abitata da russi, nda) e chiudere quindi l’accesso al Mar Nero a Kiev. Anche questo obiettivo è fallito quando, a novembre, i russi si sono ritirati da Kherson. Adesso stiamo vivendo una terza fase della guerra in cui la Russia sta ampiamente utilizzando in battaglia eserciti indipendenti o autonomi rispetto alle forze armate regolari, come il Gruppo Wagner o le truppe cecene, che stano combattendo nel nord della regione di Donetsk e da lì stanno provando ad avanzare per portare tutto il Donbass sotto il controllo russo. In questa fase stanno avanzando, seppur molto lentamente. Quindi staremo a vedere come procederà questo piano C”.