Nella strana estate vissuta dalla Sicilia – un po’ meno dai siciliani, ormai abituati a vivere con (dis)interessato distacco le vicende che riguardano il potere – anche una buona azione, come la messa in ordine di un’aiuola, finisce per offrire spunti per tornare sulle tante contraddizioni che stanno accompagnando questa stagione politica.
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Certo, la riqualificazione non è una tra le tante, considerato che si parla dell’aiuola di via Mariano D’Amelio a Palermo, a pochi passi da dove il 19 luglio 1992 vennero fatti saltare in aria il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, ma in ogni caso non dovrebbe destare particolare interesse.
Quasi ordinaria manutenzione. Quindicimila euro da spendere tenendo conto delle osservazioni della Soprintendenza per un luogo che è “simbolo – citando le parole con cui Schifani ha portato in giunta la proposta – della memoria collettiva”.
Eppure è proprio perché quest’estate siciliana ha tratti di particolarità che vanno oltre i picchi termici che vale la pena soffermarsi su ciò che sta accadendo, a Roma e Palermo, nelle aule della politica e nelle stanze della giustizia, ma anche altrove, nelle residenze private dove al tempo dei social è possibile entrare anche senza essere stati invitati.
Il ricordo e la ricotta
La delibera con cui il governo regionale ha deciso di finanziare – l’input è arrivato dall’assessore Alessandro Aricò – la sistemazione del verde e gli interventi di decoro urbano dell’aiuola è stata votata martedì. Tre giorni dopo il 33esimo anniversario della strage che, poco dopo quella di Capaci, rese esplicito a tutti come lo Stato, quella parte di Stato che incarnava la ricerca della giustizia senza compromesso alcuno, era sotto attacco.
Quest’anno è stata una commemorazione diversa. I rituali tradizionali, che nella loro ripetizione hanno spesso fatto discutere sulla strumentalizzazione del ricordo, hanno ceduto la scena – effetto della scossa avvertita all’Ars con epicentro la procura di Palermo – all’opportunità.
L’assenza di Galvagno
L’opportunità dell’esserci e del non esserci. Una novità, se si pensa che per anni il tema più affrontato è stato quello delle passerelle a tutti i costi. A decidere di non esserci, per esempio, è stato Gaetano Galvagno.
Il presidente dell’Ars, fino a pochi mesi in rampa di lancio per una candidatura a successore di Schifani, da settimane si trova svestito dai panni di enfant prodige della politica siciliana per indossare le vesti di indagato in vicende che – al di là di quelli che saranno i risvolti processuali delle accuse di corruzione e peculato – hanno di colpo fatto sorgere un dubbio: quello di non trovarsi davanti al nuovo che avanza, bensì al passato che si rinnova. Politici che utilizzano le risorse pubbliche per assecondare gli interessi privati e una gestione del potere che poco tiene in considerazione l’etica.
Galvagno, che attende di capire quanto comprensivi saranno i probiviri romani di Fratelli d’Italia, non si è presentato in via D’Amelio. Come a Palermo alla fine non si è tenuto l’evento “Parlate di Mafia” che il partito di Giorgia Meloni aveva annunciato nel capoluogo, per poi spostarlo nella Capitale. Galvagno, e con lui tantissime figure di primo piano della scena regionale, ha partecipato invece alla festa che Totò Cuffaro – l’ex governatore tornato a fare da bussola della politica siciliana, dopo avere scontato la condanna per favoreggiamento alla mafia – ha organizzato in occasione del matrimonio del figlio.
Un evento, senza cannoli ma con ricotta a prova d’estate torrida, che ha messo insieme onorevoli, consiglieri locali, imprenditori, colletti bianchi. Insieme e allegri, nello stesso giorno in cui 33 anni fa la paura andò in onda a reti unificate.
Pagine da riscrivere
Meno capaci di attirare le pagine patinate e i pettegolezzi da bar, più resistenti all’indignazione e allo sberleffo che può scaturire dallo scoprire che a casa di un esponente di Fratelli d’Italia girasse hashish, sono le vicende che interessano via D’Amelio nella sua dimensione storica. In quello che, commemorazioni a parte, ha significato per la storia d’Italia.
Una vicenda su cui non solo ancora oggi non esiste una verità giudiziaria, ma che da qualche anno è al centro di un rilettura che qualcuno potrebbe definire “raffinatissima”. Un’esegesi in cui alle domande di valore senz’altro storico – dall’origine del depistaggio ruotato attorno alla figura di Vincenzo Scarantino al ruolo dei servizi segreti, passando per il possibile coinvolgimento di figure legate all’estrema destra – sembrano essere offerte le risposte giudiziarie contenute nella sentenza definitiva del processo Trattativa. Come a voler dire, se non è nero è bianco.
Ed è così che l’impegno della Commissione parlamentare antimafia, guidata dalla melonianissima Chiara Colosimo, nel percorrere la pista del rapporto Mafia e Appalti e al contempo stigmatizzare qualsiasi tentativo di tenere insieme i tanti fatti che si verificarono in quei mesi intensissimi, finisce per lasciarsi dietro altri dubbi, nuove domande. Tra cui quella sulla funzione stessa dell’atto di riqualificare: che si tratti di un’aiuola o di un pezzo di storia del Paese, l’obiettivo è sempre quello della preservazione?

