“Ci sentiamo abbandonati”. È una frase che accomuna la maggior parte degli abitanti delle periferie siciliane. Abbandonati dalle istituzioni, lasciati a loro stessi, spesso in case pubbliche fatiscenti, cercano di condurre una vita quanto più dignitosa possibile. Una rassegnazione che ormai li rende sordi alle promesse disattese che ciclicamente vengono loro fatte durante le varie campagne elettorali. Vuole forse rispondere a questi bisogni l’istituzione della Commissione parlamentare di inchiesta sulle periferie a cui la Camera dei Deputati ha dato il disco verde proprio ieri. “Si tratta – ha dichiarato Nazario Pagano, presidente della Commissione Affari costituzionali dopo l’approvazione del provvedimento in Aula – di una sorta di focus sulle nostre periferie. Considero prioritario censire le situazioni di degrado, verificare le connessioni esistenti con i fenomeni di radicalizzazione, incrementare la sicurezza e favorire l’inclusione, valorizzare l’offerta formativa per scongiurare l’abbandono scolastico, promuovere servizi di assistenza sociale e misure economiche, infrastrutturali e fiscali”.
Immobili popolari in Sicilia
La maggior parte dell’edilizia popolare si trova nelle periferie siciliane. Questo perché dagli anni 70’ in poi l’edificazione ha interessato essenzialmente aree agricole e periferiche. “Per tanti motivi – commenta Giusy Milazzo, segretaria regionale del Sunia Cgil – Alla base, secondo me, c’è una scelta di classe, per ghettizzare i meno abbienti”. Certo, bisogna anche dire che, prima degli anni 70’, l’edilizia popolare era concentrata nelle zone più centrali delle città. In totale stiamo parlando, solo in Sicilia, di un patrimonio immobiliare composto da circa 60mila unità. Lo stato di questo patrimonio, nella maggior parte dei casi, non è lo stesso di chi può permettersi una casa di proprietà in altre zone. “Gli enti gestori hanno abbandonato questi immobili – aggiunge Milazzo – che oltre ad essere poco manutenzionati presentano spesso difetti di costruzione e si trovano anche in zone prive di servizi, senza infrastrutture stradali adeguate”
Famiglie in attesa di una casa
Il dato più certo sul disagio abitativo in Sicilia è quello che definisce il numero di persone che è in attesa di una casa popolare. Dato che fa riferimento alle graduatorie dei vari Comuni: circa 30mila famiglie. Vale a dire, considerando almeno tre persone per nucleo, 90mila persone: circa il 2% dei siciliani. A questi dati bisognerebbe aggiungere anche le 6.500 persone che, secondo il Sunia, vengono interessate ogni anno da un procedimento di sfratto. “Ma non finisce qui – spiega la sindacalista – bisogna considerare anche i circa tremila senzatetto e le famiglie (circa il 40% della fascia più povera) che sono già in ritardo sui pagamenti”.
Immobili pubblici vuoti, famiglie in attesa
A rendere la situazione ancora più paradossale è la presenza nelle città siciliane di immobili appartenenti alle istituzioni ormai dismessi e vuoti. Cosa che, in gran parte a Palermo, viene già fatta occupando abusivamente. “Anche nelle altre province – spiega Milazzo – ci sono contenitori vuoti. A Catania, per esempio si potrebbero recuperare 200 appartamenti del patrimonio del Vittorio Emanuele. L’obiettivo per aumentare il patrimonio e per evitare che ci siano pezzi di città dove vengono buttati coloro che non hanno i mezzi sarebbe quello di utilizzare tanto di quello che c’è di vuoto da riqualificare già di proprietà del pubblico per chi è in sofferenza abitativa”.
E gli interventi della Giunta? “La Regione non fa niente. In bilancio non c’è un euro su questi temi e non c’è una legge sul diritto all’abitare”.
A Catania, Librino tra topi e palazzi cadenti “Luci accese? Ci sono le elezioni”
Il nostro viaggio inizia a Librino. Un quartiere catanese progettato fra gli anni 60’ e 70’ pensato per essere completamente indipendente dalla città. Oggi è costituito per lo più da case popolari e insediamenti abusivi. Luogo di spaccio e criminalità ma anche di tante famiglie che vivono del loro lavoro e nella legalità. Abbiamo appuntamento con Alfio Sottile, referente del territorio per il Sicet di Catania (sindacato inquilini casa e territorio).
“Uno dei due inquilini che dovevamo incontrare – dice appena ci vede – ha deciso di tirarsi indietro: ha avuto paura di come i suoi vicini avrebbero potuto reagire. Purtroppo qui la gente ha paura anche di denunciare le condizioni di disagio in cui vive”. Ci dirigiamo verso viale Bummacaro e posteggiamo davanti al vecchio Caf che gestiva Alfio. Qui incontriamo Mariagrazia. Lei vive in un alloggio popolare insieme al figlio e alla madre anziana. Per arrivare a fine mese lavora in una scuola elementare di Librino ma fa anche la porta pizze e l’aiuto cuoco. Saltati i convenevoli le chiedo subito come vive il quartiere. Il primo pensiero va a suo figlio, che negli anni passati è stato vittima di bullismo. La vicenda, trattata ai tempi (nel 2017) anche da diversi giornali, era scaturita da un post contro la festa di Sant’Agata. Un post ritenuto un’offesa imperdonabile dai “devoti del quartiere” che hanno cominciato a minacciarlo di morte fino picchiarlo.
Mentre parliamo cominciamo a camminare per il quartiere, fino ad arrivare a piazza degli Elefanti. Uno spiazzo immenso ma deserto, privo di qualsiasi servizio, in cui il cemento fa da padrone. Forse per distogliere la mente da quella brutta vicenda, Mariagrazia inizia a raccontarmi la storia del parco. “È stato inaugurato una decina di anni fa con tanto di politici che sono venuti qui a sedersi. Ma che venite a fare se poi ci abbandonate?”. In tutta la piazza non c’è nemmeno un lampione. E Mariagrazia conferma i sospetti: “qui è sempre buio”. Così un posto che potrebbe essere luogo di svago, di ritrovo è invece “un luogo che la sera mette paura”.
Ci spostiamo in un punto più periferico della piazza, ma la strada è sbarrata da un albero caduto per terra. “È caduto mesi fa ma nessuno è venuto a toglierlo. Una zona completamente abbandonata”. Guardando intorno vediamo verde urbano non manutenzionato, sacchetti di spazzatura sparsi in giro, palazzi senza finestre e cavi elettrici che dalla via principale arrivano dentro le case.
“Lì ci sono anche gli ascensori staccati – dice -. Queste manutenzioni dovrebbe farle l’Iacp. Anche il mio palazzo è dell’Istituto, però con tutti i condomini mettiamo i soldi e cerchiamo di sistemare le cose”. Disagi che non sappiamo se vengono effettivamente segnalati. “Dal mio balcone cadevano pezzi di cemento e ho chiamato i pompieri che sono intervenuti. Poi sono andata all’Iacp che ha mandato la squadra per sistemare. Ma non è così semplice. I miei condomini sono tutte persone anziane con una pensione che va da 600 a 700 euro e anche se hanno acquistato, lo hanno fatto con 18 o 20 mila euro divisi in rate di 100 euro. Quando si presentano questi problemi non possono intervenire. Chi li paga?”
Una domanda che risuona nel silenzio che permea l’isolato e che possibilmente accomuna molti inquilini che si trovano nella stessa situazione. “Se ci sono persone che non pagano, il palazzo può cadere. Come si fa a non sistemare un ascensore quando un vicino di casa fa chemioterapia e ha 70 anni? C’è una zona, dove abita la mia consuocera, in cui non funziona l’ascensore. Lei ha le metastasi nelle ossa ed è letteralmente sotterrata a casa. L’ascensore è stato sistemato, ma subito dopo hanno rubato il motore. E che fai? Ti metti contro? Sono persone che subiscono perché lì ci vivono. Dicono che dobbiamo segnalare, ma poi chi ci tutela?”.
Mariagrazia continua a guidarmi per il quartiere e a mostrarmi lo stato di usura e degrado delle strutture in cui ci imbattiamo. “Davanti il mio portone, per esempio, quando piove, l’acqua arriva fino ai polpacci e rimane anche quando smette. Così si allaga pure dentro”. Chiedo a Mariagrazia se ci può mostrare dove abita per verificare lo stato dell’immobile. Ci incamminiamo e una volta arrivati noto subito sul muro il segno dell’acqua a circa 30 centimetri dal suolo. Entriamo nel palazzo e prendiamo l’ascensore. Ci apre la porta di casa la madre di Mariagrazia. Nell’appartamento, ben curato e in ottimo stato, predomina il colore giallo: dalle pareti, dipinte a mano da Mariagrazia, all’arredamento e ai soprammobili. “L’unica cosa che dovremmo fare sono le porte, perché il freddo entra dovunque e non si può stare, ma l’importante è vivere decentemente”.
Appena mi presento come giornalista, la madre comincia a spiegarmi tutto quello che non va. “Qua il problema è che siamo al buio come gli animali. Lo sa che fanno? Accendono la luce per cinque minuti e poi la rispengono. Una come me la sera può scendere la spazzatura al buio? Ci prendono pure in giro”. Mariagrazia mi spiega che le uniche luci accese per le strade sono quelle dei condomini. Ma ora, guardacaso, “le stanno accendendo”. Perché? Ci risponde la madre con un commento sarcastico: “Vabbè ora ci sono le elezioni. Fino al 28 maggio possiamo stare tranquilli”. Una frase che riassume tutta la rassegnazione presente negli occhi di ogni singola persona che abbiamo incrociato.
“C’è la differenziata stasera”, dice la mamma di Mariagrazia. “Ma secondo me hanno sbagliato perché c’è più sporcizia di quando c’erano i cassonetti. Non la fanno tutti”. Conferma anche Mariagrazia. “Sabato e domenica vado a consegnare le pizze in tutto il quartiere. Nella zona di via Biagio Pecorino, quando cammino con il motorino illumino le montagne di spazzatura e vedo famiglie intere di topi. Una cosa impressionante. Qua siamo indietro di trent’anni, non tutti sono abituati a differenziare e quando i camion passano si portano solo quello che interessa a loro, fino a quando si fanno le montagne di spazzatura e vengono con il ragno per raccogliere tutto, mentre i topi rimangono”.
Si è fatto buio e dobbiamo andare. Mentre scendiamo le scale chiedo a Mariagrazia quale sia, secondo lei, il problema più grande di Librino. “I problemi più grandi sono per i ragazzi. Mancano strutture ricreative. Mio figlio si è diplomato in Dad, ha finito il servizio civile e ora lo vedo spegnersi giorno dopo giorno. L’unica opportunità data dalle istituzioni è la scuola dove lavoro, che accoglie ragazzi socialmente disagiati. Ma ce ne vorrebbero altre dieci di scuole come questa per dare a tutti i bambini del quartiere una prospettiva diversa. Invece, continuano a fare tagli. Se un ragazzo vive una situazione disagevole e non gli viene mostrata nessuna alternativa di vita, penserà che l’unica realtà che esiste sia quella che vive. Bisogna puntare su di loro. E invece siamo tutti rassegnati”.
Salutiamo Mariagrazia e saliamo in macchina. Davanti a me ed Alfio la saracinesca dove si trovava il Caf della Cisl. “Nel 2014 – dice mentre mette in moto – sono venuti tre personaggi che volevano spazio all’interno perché dovevano aiutare le famiglie che avevano i mariti in carcere. Gli ho detto di andare nella nostra sede principale per parlarne con il presidente e loro hanno risposto che ‘non andavano da nessuna parte’. Per tutta risposta, dopo un paio di giorni, abbiamo trovato una cinquecento bruciata e infilata dentro la saracinesca. Era tutto incendiato. Alla fine, abbiamo deciso di andarcene da quella zona perché non ci volevano più”.
Arriviamo in viale Biagio Pecorino e ci fermiamo nel parcheggio libero e all’aperto di un palazzo di almeno dieci piani visibilmente degradato. Noto altre persone posteggiate come noi. “Qua ci spacciano”, spiega Alfio. Davanti a noi ragazzi di tredici anni su un motorino che parlano con una loro coetanea. Ci notano e interrompono la conversazione per venirci incontro. Cercano di speronarci con il motorino ma non ci riescono. Alfio mette di nuovo in moto e andiamo via. “Quel palazzo dall’altro lato della strada – racconta – era quasi ultimato, mancavano solo le porte interne e l’impianto idrico. Ormai però è rimasto solo lo scheletro. Questo perché quindici anni fa l’Iacp ha fatto le assegnazioni ma non ha mai consegnato gli appartamenti. Nel frattempo,è scaduto il contratto alla vigilanza e quando il custode se n’è andato hanno smantellato il palazzo. Stiamo parlando di 172 alloggi vuoti che non si possono consegnare: almeno 500 persone che potrebbero avere una casa. Mentre a Catania ci sono almeno seimila famiglie che aspettano un alloggio popolare”.
Palermo, abusivi per disperazione tra Brancaccio e lo Zen
Il nostro viaggio tra le vie delle periferie siciliane continua qualche giorno dopo a Palermo. Ci diamo appuntamento con Zaher Darwish, presidente locale del Sunia Cgil, di fronte la sede del sindacato. Salgo in macchina con lui e ci dirigiamo verso il quartiere Brancaccio. Stiamo andando a trovare Consuelo: una signora che vive con le sue due figlie e con il compagno in un appartamento confiscato a un mafioso da oltre 30 anni. Appartamento che non le è mai stato assegnato, ma che ha occupato sei anni fa in seguito a uno sfratto.
“Quando sono entrata – mi spiega – non c’era neanche il pavimento in questa casa. Le stanze erano in uno stato pietoso. Quando piove ancora entra acqua dalla veranda e dalle finestre”. Le chiedo di raccontarmi la sua storia dall’inizio. “Ero in una fase di disperazione: venivo da due sfratti e non sapevo più dove andare. Mi avevano parlato di questa casa chiusa e abbandonata. Sono venuta a controllare e ho trovato la porta aperta: c’era un buco sia nel muro che nella porta, con una grossa catena che passava intorno. L’ho semplicemente spostata e aperto la porta trovando una casa distrutta. Subito dopo essere entrata ho chiamato la polizia per auto-denunciarmi. Poi sono andata al demanio a cui più volte abbiamo chiesto una cifra per pagare un bollettino mensile, ma ci hanno sempre negato questa possibilità. Anzi, l’impiegato mi ha guardato in faccia dicendomi: ‘la casa è mia e lei se ne deve andare’. Io non sono andata via e poco dopo sono rimasta incinta della mia seconda figlia. Dopo il parto è arrivata la prima minaccia di sgombero. Un’altra volta mi è arrivata una lettera di mancato affitto di 15mila euro, nonostante mi era stato impedito di pagare per questo immobile. Io lo so che ho sbagliato e che ho commesso un reato, ma questa casa era vuota. Non avrei mai occupato una casa abitata”.
Le chiedo come riesce a vivere, se ha un impiego. “L’anno scorso ho fatto la badante ma poi con i tempi frenetici dovuti alle mie figlie non riuscivo più. Il mio compagno pure aveva un lavaggio ma gli è stato sequestrato e saltuariamente lavora con suo padre. Ci arrangiamo, abbiamo il reddito di cittadinanza che ci consente di mangiare”.
Quella di Consuelo è una situazione di emergenza abitativa come le tante che ci sono a Palermo: sul filo della legalità intere famiglie sul lastrico occupano immobili abbandonati e li riqualificano come possono. “Io non ho dove andare. Non so cosa avrei fatto se non ci fosse stata questa casa. Non ci ho pensato due volte a entrare con una bambina di quattro anni. Ero rovinata”. Nel caso specifico, si tratta pur sempre di un immobile confiscato alla mafia palermitana e la domanda sorge spontanea: hanno mai ricevuto minacce da qualcuno? “No. Anzi, il contrario. Erano contenti che ci fossimo noi con la bambina e non mi hanno mai chiesto niente”. Un paradosso nel paradosso. Ogni giorno la paura è quella di subire uno sgombero, e mi domando se si trovasse in lista per ricevere un appartamento di edilizia popolare che le permetterebbe di risolvere la sua situazione. “L’assessore mi ha detto di fare la domanda. Ma dal Comune mi hanno spiegato chequesta non può essere accolta. Se dovessero darmi un’altra soluzione io la prenderei con piacere”.
Abbiamo ancora tanti appuntamenti con Zaher che mi fa cenno con la testa per dirmi che è giunto il momento di andare. Ci rimettiamo in macchina. “Dobbiamo andare dall’altro lato della città: allo Zen”, mi dice. Nonostante la differente conformazione geografica, le periferie palermitane, così come quelle catanesi, sono piene di rassegnazione. “L’assenza di chi amministra – mi dice Zaher – ha fatto sì che la gente si rassegni alla loro vita, all’abusivismo. Temo che sia un problema di tutti. Se lo Stato non fa sentire la sua presenza, la gente si adagia e la mafia viene favorita perché trova terreno fertile”.
Finiamo di parlare e ci rendiamo conto di essere arrivati all’ex Onpi, un bene donato da un cardinale al Comune che per oltre 15 anni è rimasto abbandonato, diventando centro di spaccio, luogo di messe nere e una discarica a cielo aperto. Oggi è occupato da 65 famiglie che dopo essersi ritrovate sul lastrico hanno trovato questo riparo dal freddo. Un riparo sporco, fatiscente e decadente che hanno sistemato per come potevano. Oltre a tutte le famiglie, ad accoglierci c’è anche l’architetto che si sta occupando volontariamente di portare avanti un progetto di autocostruzione, Giovanni Giannone.
“Le famiglie hanno già intrapreso questo percorso per disperazione e hanno ridato l’anima al complesso sistemando gli ambienti abitativi. La collettività di fatto si trova un immobile che viene curato e recuperato dagli stessi abitanti, senza aiuto di nessuno. Il concetto è questo: tu Comune dormi? Comincio io a fare qualche cosa”.
Alcune famiglie in autonomia hanno iniziato a fare lavori sulle facciate dei vari plessi. Alcuni di loro mi portano a vedere l’attuale lavoro che stanno portando avanti. “Questo, tutto le famiglie lo hanno fatto – mi dice un ragazzo indicando la facciata con l’impalcatura di fronte a noi -. Più di questo cosa dobbiamo fare? Ci stiamo sistemando tutto da soli a poco a poco. E il ponteggio è il mio. Il Comune ha uscito zero euro. Siamo abbandonati. Le cose diventano mie perché me le curo io”.
Gli faccio notare che essendo proprietà comunale, questi interventi li dovrebbe fare l’Ente preposto. “Lo so, ma qui il Comune non vuole fare niente. Sono dovuto intervenire per forza. Ci siamo messi d’accordo con le altre famiglie e stiamo realizzando tutto. Il Comune nemmeno lo sa che stiamo facendo questi lavori”.
Incuriosito dalla conversazione, si avvicina a noi Matteo, il rappresentante del Sunia per l’ex Onpi. “Qua queste cose si fanno con sacrifici, si raccolgono i soldi dieci euro alla volta fino ad arrivare alla cifra che ti permette di fare i lavori”. Zaher mi dice che fino a lunedì scorso c’è stata una riunione con la seconda commissione all’urbanistica del Comune alla presenza dell’assessore al ramo. “Abbiamo rinnovato nuovamente la richiesta Comune ad aderire al progetto di auto recupero, oltre ad aver richiesto interventi per la messa in sicurezza e sul verde pubblico. Non si muove una foglia”.
Matteo mi porta a vedere una zona in cui gli alberi sono stati piegati dal forte vento. Addirittura un albero è caduto davanti l’ingresso della scuola elementare che si affaccia sul piazzale dell’ex Onpi. Colgo l’occasione per chiedergli chi abita questo complesso. “Sono persone normali che fanno lavoretti saltuari o chi non lavora completamente. Gente che vive alla giornata. Molti prendono il reddito di cittadinanza ma altri no perché non hanno la residenza. L’attuale assessore mi aveva detto che avrebbe fatto intervenire la ditta per mettere in sicurezza gli alberi. Non si è visto nessuno: sono venuti solo a togliere qualche erbaccia. Dimmi tu se possiamo avere fiducia in questa Giunta che se ne frega altamente della gente povera. Capisco che l’abusivismo è un reato, ma cosa dovevo fare io? Ho voluto dare un tetto a mia moglie e ai miei figli. In famiglia siamo cinque e campiamo con il reddito di cittadinanza”.
Chiedo a Matteo se può mostrarmi il “magazzino” che ha “trasformato in casa”. Mentre ci avviamo verso la sua abitazione, che è la prima del complesso dell’ex Onpi, mi chiedo se avessero cercato alternative all’abusivismo, cercando di trovare un alloggio popolare. “Noi siamo in graduatoria. Ma ormai non ci credo più in questa graduatoria. Come è possibile che il primo della lista, che io conosco, non riceve un alloggio e altre persone lo ricevono? Possibile perché danno mazzette?”.
Arriviamo a casa sua, c’è un piccolo ingresso ricavato sotto una scala antincendio. Entriamo in un unico ambiente con la cucina, un tavolo, un divano e la televisione. In fondo alla stanza una scala a chiocciola che porta al piano di sopra dove dorme suo figlio. “Quando sono arrivato qui dieci anni fa, oltre le macerie, c’era di tutto. Arrivavano drogati che si mettevano dentro le case e si bucavano, hanno trovato un cane impiccato perché facevano riti satanici, topi, scarafaggi, spazzatura. E quando ho detto che noi non abbiamo occupato ma riqualificato, l’assessore mi ha riso in faccia”.
Prima di salutare Matteo, la sua famiglia e tutte le altre dell’ex Onpi, gli chiedo qual era il suo sogno prima di tutte le vicende che lo hanno portato ad abitare questo luogo. “Io volevo solo lavorare, pagarmi l’affitto e le bollette e poter campare la mia famiglia. Ma qui a Palermo purtroppo non è possibile”.

