Presidenzialismo con doppio turno - QdS

Presidenzialismo con doppio turno

Carlo Alberto Tregua

Presidenzialismo con doppio turno

mercoledì 19 Giugno 2013

Riforma costituzionale alla francese

Charles De Gaulle (1890–1970), militare retto e duro, si accorse che la Francia si era incartata nelle sue istituzioni, che la tenevano bloccata in uno stato economico-sociale tremendo (un po’ come accade ora in Italia), perché nella Quarta Repubblica i governi nascevano e cadevano un giorno sì e l’altro pure.
Cosicché, si appellò al popolo, cui sottomise la riforma dello Stato, sottoposta a referendum, nel 1958. Il popolo approvò e la Francia passò alla Quinta Repubblica, che ha avuto il pregio di stabilizzare le istituzioni e consentirle un normale sviluppo economico-sociale.
La riforma si fondava sull’elezione diretta del Capo dello Stato, che durava in carica sette anni, poi ridotti a cinque. E si fondava sull’elezione dei parlamentari a doppio turno, secondo tale schema: nel primo qualunque numero di candidati; nel secondo i primi due.
Assemblée nationale e Sénat hanno funzioni differenti: in questi 55 anni centrodestra e centrosinistra si sono alternati con i loro presidenti, i quali hanno nominato il capo del governo di volta in volta.

In qualche caso, si è verificata una coabitazione fra i due schieramenti, in quanto il presidente apparteneva a uno e la maggioranza parlamentare all’altro. Ciononostante, la Francia è rimasta governabile.
Il Paese transalpino ha anche un altro punto di forza: la sua burocrazia, i cui dirigenti provengono dall’Ena (École nationale d’administration) che ha sempre mantenuto una sorta di indipendenza dal potere politico.
Poi non bisogna dimenticare che la Francia è Stato da oltre cinquecento anni e che la popolazione francese può contare su un forte senso dell’appartenenza.
Perché descriviamo la situazione istituzionale del Paese confinante? Perché è un modello che funziona.
Sono passati 55 anni per fare capire alla nostra classe politica la necessità di studiarlo e proporre la profonda riforma costituzionale, che l’attuale strana maggioranza si accinge a varare, in una strada che non dovrebbe durare, così come ha affermato l’attuale presidente del Consiglio, Enrico Letta, più di diciotto mesi.
 

Nel nostro Paese i nodi sono venuti al pettine con la crisi finanziaria, che ha costretto i responsabili delle istituzioni nazionali, regionali e comunali a rivedere profondamente il loro metodo clientelare di spesa pubblica e improduttiva, tendente ad alimentare clientelismo e favoritismo.
Tutti costoro hanno dimenticato che sono a servizio dei cittadini e che questo non è uno slogan. I cittadini devono sapere chi ci governa per cinque anni, in modo che si individuino, senza ombra di dubbio, la responsabilità o il merito per i risultati ottenuti, negativi o positivi.
In questo quadro, va individuato il preciso compito di una parte di televisione e quotidiani consistente nello  spiegare ai cittadini che rigore e crescita possono essere coniugati. Non c’è nessun conflitto fra la necessità di tenere i conti in ordine, contestualmente alla destinazione di una parte rilevante delle spese agli investimenti.

La verità è che l’attuale classe politica e quella burocratica non vogliono rinunciare ai privilegi. Non si capisce perché un parlamentare, che incassa già uno stipendio di circa 20 mila euro al mese, oltre ad avere molti benefit, debba ricevere un’indennità supplementare perché fa parte di commissioni o è presidente, vice presidente, questore o segretario di una Camera, perché debba ricevere rimborsi spese generici e non a piè di lista, rigorosamente documentati, e via enumerando.
Se non si eliminano queste spese inutili, se non si eliminano questi privilegi baronali, la gente non capirà che la cattiva gestione è finita e quindi protesterà non andando a votare. Tutto ciò non è disinteresse, né antipolitica, ma una forma di disgusto e rabbia nei confronti di chi dimentica sovente che è il popolo a dare l’incarico e non questo o quel burattinaio di turno.
Su 730 miliardi di spesa pubblica, la Commissione insediata dallo scorso governo aveva individuato tagli per quasi 100 miliardi, ma né il governo Monti, né quello attuale sono stati in condizione di tagliare cifre sensibili. E senza tagli non ci sono risorse per la crescita.

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