“Dal punto di vista procedurale direi di no: sono due inchieste assolutamente autonome l’una rispetto all’altra. Quella sul buco di bilancio risale infatti al 2006, attualmente è al vaglio del Gip e credo che presto andrà in fase dibattimentale. L’inchiesta sui 140 milioni di euro erogati dal Cipe risale invece al marzo 2009. Non c’è tra esse alcuna interferenza né con riguardo ai fatti, né con riguardo alla procedura. La connessione è semmai logica: il buco di bilancio è infatti il presupposto causale della necessità di ottenere dei fondi straordinari per fare fronte allo stato di grande disavanzo della contabilità del Comune”.
“Certamente è contemplato il falso ideologico (art. 479 c.p.), ma probabilmente c’è anche l’abuso (art. 323 c.p.) in quanto la dichiarazione dello stato di dissesto avrebbe determinato prima il commissariamento e poi lo scioglimento del Consiglio comunale. Per quanto riguarda la tempistica non è assolutamente facile dare risposte certe: si tratta infatti di un processo complesso sia per il numero di imputati – diciotto in tutto – sia per il numero delle posizioni da esaminare, sia infine per le svariate questioni di fatto e di diritto da dover affrontare. L’insieme di tutti questi elementi fa pensare che i tempi non saranno brevissimi”.
“La procura ha chiesto il rinvio a giudizio proprio perché si configurano dei reati: se tali richieste verranno accolte, il limite della legalità sarà certamente stato oltrepassato in quanto siamo appunto in ipotesi di falso. Ipotizziamo infatti che si sia tentato di far quadrare i bilanci inserendo partite che non esistono o che vengono sopravvalutate ad hoc: proprio in questo consiste il falso ideologico. A giustificazione solo parziale si può dire che in effetti nell’ultimo decennio, sia per il necessario riallineamento dei conti pubblici ai vincoli di Maastricht sia per una reale crisi economica, i trasferimenti ai Comuni da parte dello Stato sono in effetti diminuiti: ma non è questo il punto. Il problema vero risiede in un amministrazione della Cosa Pubblica catanese né attenta, né oculata, né ben condotta: non possiamo in sostanza dire che il Comune di Catania abbia curato attentamente i propri interessi laddove si trattava di acquisire risorse o che sia stato oculato nel disporre delle risorse allorché si è trattato di affrontare le spese e poi la crisi”.
“Il Comune – ha chiarito il procuratore D’Agata – ha richiesto al Cipe il finanziamento di opere ritenute strategiche e già inserite nel piano triennale, nella speranza che il costo delle medesime potesse essere assunto dal Cipe: ciò avrebbe infatti consentito di destinare le risorse destinate all’esecuzione delle suddette opere al risanamento di altre partite di bilancio”.
Con delibera del 30 Settembre 2008 il Cipe approvava il finanziamento, che però veniva immediatamente bloccato in seguito ad un esame più attento della documentazione che ha rivelato come le opere, seppure inserite nel bilancio, non avessero alcuna copertura, ma fossero solo un libro dei sogni: a sbloccare l’impasse interveniva il D.l. del 7 Ottobre che ha consentiva al Comune di utilizzare il finanziamento erogato dal Cipe per il ripianamento di debiti correnti.
“La situazione – conclude il Procuratore – è dunque stata sanata con una legge, ma anche nella sua configurazione originaria, per quanto discutibile, non vi erano rilevanze penali. Nella prospettazione mediatica che ne è stata fatta la vicenda viceversa sembrava assumere i connotati di un’operazione poco limpida. Bisogna infatti considerare che i fondi Fas sono risorse dello Stato: se esso con una legge decide di stornare questi fondi per finalità diverse da quelle di istituto, può legittimamente farlo in quanto detentore del potere sovrano. Ed infatti l’esperienza di Catania o di Roma non è la prima in materia di Fas: somme dei Fas sono state infatti stornate per le olimpiadi di Torino, per l’Expo di Milano e per la ricostruzione in Abruzzo”.