I giovani e i social media, binomio inscindibile soprattutto in tempo di pandemia in cui perfino l'istruzione passa attraverso uno schermo. L'opinione degli esperti del settore
I giovani e i social media, binomio inscindibile soprattutto in tempo di pandemia in cui perfino l’istruzione passa attraverso uno schermo. E’ di queste ore purtroppo, la notizia dell’ennesimo caso di minore coinvolto in una challenge finita male, una bambina palermitana, deceduta a seguito di una challenge su Tik Tok.
Ce ne parla il dottore Adriano Schimmenti, professore ordinario di Psicologia dinamica presso l’Università Kore di Enna per cercare di capirne di più:
Professore Schimmenti, alla luce del recente caso che ha
visto purtroppo coinvolta una ragazzina di 10 anni, morta in seguito ad una
challenge su Tik Tok, secondo lei cosa spinge i ragazzini a compiere queste
sfide estreme?
Grazie per la domanda che credo sia una delle più importanti, cioè capire il “perché lo fanno”. La risposta è duplice. Da una parte abbiamo il ruolo dei “nuovi media” e di come questi vengono utilizzati dai ragazzini che nascono direttamente, a differenza di noi adulti, in un mondo di preferenze costruite sulla socializzazione virtuale e che oggi, a maggior ragione in questo periodo di pandemia, sono ancora più forti perché la nostra vita trascorre per lungo tempo on – line. Quindi la prima questione riguarda questa sorta di “iper realizzazione” delle nostre relazioni e dei nostri scambi virtuali, che portano a vivere il mondo virtuale in una forma di onnipotenza. Due studiosi, Caretti e Di Cesare, affermano che già agli albori di internet era scoppiato un senso di onnipotenza in cui “tutto è possibile, tutto dipende da me”.
Quindi direi che li spinge proprio questo desiderio di mettersi in mostra, di competere. Atteggiamento questo, che ha a che vedere anche con quelli che sono i valori che questo tipo di realtà in qualche maniera favorisce, pensiamo soltanto al valore del like, che ti porta a sentirti parte di un gruppo, ti porta a sentirti apprezzato e così via. E’ pericolosissimo però identificarsi con dei valori che non hanno a che vedere con le tue qualità personali, ma con il tuo voler “piacere agli altri”, perché questo evoca caratteristiche narcisistiche, problematiche rispetto a ciò che tu fai e perché lo fai.
Questo è il primo livello, poi c’è un livello di natura personale, che riguarda quelle caratteristiche caratteriali che hanno anche i bambini: analizzando la letteratura scientifica sull’argomento, rispetto ai blackout games, ai chocking games, a tutte queste challenge insomma, gli studi mostrano fondamentalmente due tipologie di bambini maggiormente attratti da questi “giochi”, anche se in realtà sono delle pericolosissime, oltre che inutili, sfide contro la morte: contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non si tratta solo di quei ragazzini più portati alle sfide e ad assumersi rischi, ma anche i ragazzini che hanno problemi legati a tristezza, depressione, sempre per quel discorso legato al sentirsi parte di una comunità.
Ecco professore, parlando della personalità dei bambini,
che stanno appunto sviluppando il proprio modo di essere, assorbendo
l’imprinting dalle famiglie che, mi corregga se sbaglio, dovrebbero essere le
prime ad instaurare un dialogo, forse si dovrebbe intervenire a sostegno delle
famiglie?
Assolutamente, c’è bisogno di educazione digitale in
primo luogo, sia per i genitori che per i bambini: un’adeguata formazione
all’utilizzo consapevole dei media. Dall’altra parte abbiamo un dato, che anche
la ricerca conferma, rispetto ai rischi dei minori on – line: ci vuole un
controllo da parte dei genitori, che non deve passare attraverso l’intrusività
oppure la proibizione, perché il proibire rischia di stimolare il minore
nell’esplorazione di ciò che non è consentito! E’ necessaria una curiosità
attenta da parte dei genitori, che non si ferma alla domanda: “cosa stai
facendo” ma, ad esempio, davanti alla risposta “sto guardando un video”,
ribattere “guardiamolo insieme” per favorire lo scambio dell’informazione nella
famiglia. Ci sono poi tutta una serie di figure professionali che dovrebbero
intervenire per esempio nelle scuole, come gli psicologi ma anche i
pedagogisti, i sociologi. La ricerca dimostra che i bambini informati hanno
minore probabilità di mettere in pratica il comportamento a rischio. Quindi in
base alle nostre conoscenze e alle capacità cognitive dei ragazzi, abbiamo il
dovere di fornire loro queste informazioni.
Mi viene in mente l’opera di informazione portata avanti
dal consigliere Rocco Chinnici, che andava nella scuole a parlare ai ragazzi
dei pericoli della droga. Recentemente è venuto fuori che, già a 13 anni, i
ragazzi fanno uso di droghe e superalcolici. Forse sarebbe necessario
riprendere a fare questi incontri o, se si fanno, non sono sufficienti…
Lei sta cogliendo un problema importante: quello di cui
si sente l’esigenza è una partecipazione della comunità ai problemi dei
giovani. Cioè l’idea che si partecipi maggiormente attraverso chi ha esperienza
diretta nel lavoro, come nel caso del consigliere Chinnici, perché può portare
la propria testimonianza affinché questi fenomeni non si ripetano. Come
società, dobbiamo lavorare più sulla prevenzione che sull’emergenza: dobbiamo
lavorare in tal senso, essere in grado di prevedere prima che accadano guai
peggiori, com’è stato purtroppo nel dolorosissimo episodio della piccola
Antonella su Tik Tok.
Se lei avesse potere decisionale, cosa farebbe?
Organizzerebbe degli incontri con le famiglie?
Bisognerebbe formare congiuntamente familiari e bambini
e, ovviamente, tutte le figure che hanno una funzione formativa per gli stessi,
per appunto informarli. Dopodiché, non individualmente ma per gruppo e per
categoria, approfondendo, si potrebbe lavorare con gli insegnanti
nell’individuazione del rischio, per esempio. Sono tanti i rischi per i
ragazzi, pensiamo come lei ha detto, al pericolo delle droghe e dei
superalcolici ma anche l’autolesionismo, ahimè parecchio diffuso. Occorre
formare i familiari al sapere intercettare segnali e cogliere i bisogni e le paure
del bambino, così come è necessario segnalare a bambini e ragazzi i rischi a
cui vanno incontro: formarli ad uno scambio anche più aperto alle loro reali
esigenze piuttosto che ai valori di una comunità orientata solo al virtuale. Io
creerei delle équipes di lavoro che intervengano in primis all’interno delle
istituzioni per favorire questo scambio genitori – figli.
Abbiamo inoltre raggiunto, per un altro punto di vista, Annette Lichtenstern, presidentessa e ideatrice dell’associazione culturale “Palermo bimbi”. Come lei stessa scrive sul sito dell’associazione, è laureata in Design della Comunicazione, grafica pubblicitaria, web designer oltre che madre.
Presidentessa, quanto è forte il
coinvolgimento delle famiglie nella supervisione dei minori sui social? E’
abbastanza o si potrebbe fare di più?
Dato l’esagerato consumo dei social media da parte delle famiglie, ad un certo punto si ha una vera e propria nausea, dovuta anche al fatto di dover già seguire la D.A.D ( didattica a distanza, ndr). Si arriva ad avere un vero e proprio fastidio nei confronti di social come Facebook: infatti se nota, ci sono anche meno post su quella piattaforma.
Fanno molto bene le comunità che vigilano, ma ripeto in genere le famiglie non ci vanno perché danno il computer ai figli per seguire le lezioni e così via. Sicuramente andrebbe incentivata una maggiore consapevolezza sin da piccoli, di ciò che comporta il consumo di internet e tutto quello che c’è intorno, perché i cambiamenti ci sono, e sono anche molto veloci. Il governo neozelandese ha creato una campagna informativa rivolta ai genitori, in cui due star di uno show rivolto agli adulti bussano in costume adamitico alla porta di una madre, per informarla che i propri figli li seguono. Questo per dire che serve il dialogo, non la punizione. I genitori dovrebbero parlare con i propri figli di determinate cose, senza lasciare per esempio che scoprano la sessualità attraverso internet dove tutto è finto ed estremamente enfatizzato, penso ai siti per adulti ma potrei fare molti altri esempi. La scuola potrebbe tornare ad insegnare educazione sessuale servendosi di figure professionali, anziché evitare l’argomento per via di retaggi culturali bigotti, soprattutto per il bene dei propri figli.
Questi ad altri atteggiamenti vengono
usati per farsi accettare dal gruppo?
Assolutamente si, senza rendersi conto però che spesso si vuole entrare a far parte di compagnie sbagliate. Si inizia con la sigaretta, poi si passa alle sostanze stupefacenti, all’autolesionismo. Tutte queste sciocchezze pur di non rimanere emarginati.
Teresa Fabiola Calabria