Mettere al mondo, prendersi cura, lasciar andare - QdS

Mettere al mondo, prendersi cura, lasciar andare

Mettere al mondo, prendersi cura, lasciar andare

venerdì 30 Giugno 2023

Daniela Avanzato ci racconta come il Public Design con la Design Therapy può sostenere la crescita e lo sviluppo nella nostra terra

Oggi ho inteso raccogliere le riflessioni di Daniela Avanzato, Coordinatrice dei Programmi di Cooperazione Locale presso la Fondazione Comunitaria di Agrigento e Trapani, un’organizzazione della società civile, laica e indipendente, che promuove lo sviluppo sociale, economico, culturale ed ambientale nel territorio delle province di Agrigento e Trapani.

Tale organismo promuove e sostiene programmi e progetti che rispondono ai bisogni delle comunità volti a produrre azioni concrete di sviluppo in ambito locale , in maniera innovativa e sostenibile, realizzando modalità di facilitazione in relazione alla creazione di beni comuni.

Bene Daniela Avanzato, quali sono, secondo te, le traiettorie di induzione alla partecipazione attiva della utenza, che noi designer . possiamo innestare attraverso l’esercizio, gigantesco ed illimitato, inesauribile, del potenziale connesso alla frazione ludica, giorno per giorno, istante per istante? È un potenziale energetico incommensurabile ed estremamente efficace, se ci pensi…, basterebbe metterlo in esercizio con le opportune procedure.

«La partecipazione attiva per noi è una costante. Il nostro status giuridico, di Fondazione Comunitaria, ce lo chiede e noi vogliamo essere un’infrastruttura sociale in cui far convergere risorse, tangibili e intangibili, e in primis persone. In tal senso, riporto il pensiero del nostro Presidente, Pietro Basiricò: “Una vita è ben vissuta, se ci si prende cura l’uno dell’altro. Così pure una comunità è sana e cresce nella prosperità e progettualità se è composta da persone che la valorizzano e ne hanno cura.” Questa è la nostra interpretazione di partecipazione attiva, il dovere che ciascuno di noi ha per il risanamento e la crescita delle comunità. Ma è un dovere che promuoviamo senza quella caratteristica di “pesantezza” che spesso gli viene associata. Perché è un dovere che si connette con i valori personali di ciascuno, che ci dà uno scopo profondo nelle comunità, che ci fa sperimentare la gioia della gratificazione. Ed è anche una questione di metodi: la frazione ludica aiuta a far sentire la “leggerezza”, nel senso positivo e pieno del termine. Operare con giochi (e non solo con esercizi); individuare insieme soluzioni (e non restare ingarbugliati nei problemi); coinvolgere emotivamente (e non solo razionalmente); stimolare sempre la socializzazione e una sana competizione; mostrare come, pian piano, i risultati si raggiungono e, proprio come in un gioco, i “livelli si sbloccano”. La nostra fortuna è stata aver avviato, tra i vari progetti, diverse attività con i più giovani, ben pronti e predisposti alle attività di gamification che abbiamo loro proposto, per capire che quella leggerezza serve a tutti».

Nei miei scritti parlo spesso di Design Therapy, quale nuovo “bisogno‟, in un’era in cui tale termine è stato destituito dal termine “desiderio‟, ovvero della realizzazione di serie di azioni concrete nella nostra vita reale, per la realizzazione di un Paesaggio Risonante. Come pensi possa essere accolta, dagli enti competenti, tale procedura di realizzazione di uno scenario attivo nei nostri contesti territoriali?

«Pian piano viene ben accolta, e lo dico perché la nostra esperienza in tal senso è positiva. Certo, non senza difficoltà e remore. Nella nostra giovane storia – la Fondazione è stata costituita nel 2019 – abbiamo avviato il nostro operato consapevoli di agire in un contesto territoriale in cui la coesione e le co-progettazioni non sono una costante. Per cui, alla novità degli strumenti e dei metodi e il conseguente spaesamento, si aggiungeva la componente collaborativa e di complementarità. Gradualmente però, gli enti competenti si aprono al Design Therapy: un po’ spinti dalle positive evidenze in giro per l’Italia, un po’ spinti dall’impatto sociale che noi stessi abbiamo generato in questo giovane percorso. La sensibilità e, per certi aspetti, anche l’età degli interlocutori sono fattori prioritari. E, per questo, sono importanti le attività informative e di sensibilizzazione rispetto al Design Therapy. Si tratta, in poche parole, di partire da uno “step 0” formativo che non è una cosa per forza negativa, perché aiuta a costruire una base condivisa per evitare rallentamenti e problematiche in corso di realizzazione.  In primis, intendo il far proprio da parte degli Enti territoriali del principio per cui i bisogni comunitari individuati nei processi di Design Therapy diventano elementi centrali e guida delle future progettazioni. Il Design Therapy deve essere percepito come strumento per giungere a progettazioni concrete e non come esercizio fine a sé stesso».

Quali limiti possiede uno strumento di pianificazione e governo dei nostri contesti ambientali, quale è quello del PRG che, per definizione ha una durata illimitata, in un‟era in cui i profili d‟esercizio sempre più dichiarati, delle volte con grande spudoratezza e poca adesione ai feroci parametri propri della realtà concreta, sono quelli propri della Smart City?

«La Smart City è la città tecnologica per eccellenza, super connessa e intelligente grazie alle tecnologie. E le tecnologie sono la cosa più mutevole che conosciamo, richiedono velocità e snellezza di adattamento, richiedono continui aggiornamenti nell’operato di persone e organizzazioni. Il PRG, al contrario, è uno strumento lento, di lungo termine e con difficoltà di aggiornamento. Le tecnologie connettono. Il PRG isola entro i confini municipali.

D’altra parte, riconosco limiti sociali sia allo strumento del PRG che al modello della Smart City. Laddove la tecnologia ha potenzialità abilitanti per la comunità, non è detto che tutti i membri di una comunità possano fruire o sappiano fruire della tecnologia. Tristemente emblematica è stata la didattica digitale durante la pandemia che ha acuito le disuguaglianze nell’accesso alle risorse digitali. Motivo per il quale uno strumento rimane uno strumento che può essere utilizzato bene o male. Così con la Fondazione di Comunità avviamo processi, di rigenerazione urbana e sociale, in grado di includere e non lasciare indietro nessuno: la comunità, con i suoi bisogni, al centro».

Come si conciliano questi due profili d‟intervento, in un contesto urbano che non può fare più a meno di dover accogliere nella determinazione dei suoi parametri d’ingaggio e d’esercizio termini quali “temporaneità”, “provvisorietà”, “mutabilità”, “impermanenza”?

«È giusto continuare a lavorare su più orizzonti temporali: uno di medio-lungo termine, ma anche molteplici orizzonti di breve termine, quelli programmati ma anche quelli nati dall’inaspettato o dalla mutabilità dei nostri tempi. Dobbiamo sapere che comunità vogliamo essere, che ambiente vogliamo abitare e di che relazioni vogliamo nutrirci. Una visione che guida le singole risposte contingenti alla mutabilità dei nostri tempi. Ma anche una visione di lungo termine che si nutre delle contingenze mutevoli. Ogni orizzonte temporale si nutre dell’altro.

Ma soprattutto è giusto avere strumenti di pianificazione che parlino tra di loro o, meglio ancora, che si integrino. L’urbanistica deve parlare con le scienze ambientali e geologiche, l’economia, la cultura, il sociale; parlare non soltanto del “dove”, ma del “come”. Lo sviluppo urbanistico deve essere sviluppo ambientale, economico, culturale e sociale e deve inglobare in sé queste competenze e prospettive. Altrimenti, i rischi li conosciamo tutti: basti guardare certi dissesti idrogeologici o certi cortocircuiti sociali avvenuti nelle periferie delle nostre città. Spesso i cortocircuiti sociali provengono da interventi urbanistici con intenti di alto pregio, ma che – ahimé – rimanevano ancorati all’urbanistica senza guardare agli altri aspetti, senza ascoltare le voci di chi abitava o avrebbe abitato quei luoghi.

Rispetto al secondo profilo di intervento, è palese a tutti che stiamo vivendo una progressiva digitalizzazione delle nostre città. Digitalizzazione che deve essere senz’altro promossa, ma anche indirizzata verso tecnologie “democratiche”, sostenibili integralmente e open source. Altrimenti anche questo processo di sviluppo seguirà specularmente i divari territoriali già esistenti.

In Fondazione Comunitaria promuoviamo un approccio che contempli, in uno scambio reciproco e costante, visione e concretezza del nostro intervento, dei programmi, dei progetti, delle attività».

Con il salto nel nuovo millennio, si è mostrata sempre più irrevocabile la questione del ridisegno, in maniera continuata, del nostro scenario di prossimità, specie alla luce della comparsa di nuove problematiche di relazione dinamica tra entità ed individui presenti in un contesto urbano, ora resi particolarmente pressanti in ragione della presenza e dell‟alternarsi di crisi economico-finanziarie, ambientali, sanitarie.

«Aggiungerei crisi sociali. Ogni crisi economico-finanziaria, ambientale, sanitaria diventa crisi sociale. In virtù di questo il ridisegno della prossimità è essenziale, perché la prossimità è adattiva di fronte alle crisi. Chiamo in causa nuovamente la pandemia per ricordare quanto sia stato importante il capitale sociale delle nostre città per rispondere a certe emergenze sociali, per far fronte a certe situazioni di isolamento. E ancora, quanto abbiano sofferto i bambini e gli adolescenti in quel periodo, cioè chi quel capitale sociale doveva ancora costruirselo.

Certo, ci sono crisi che la sola prossimità non risolve. Ma aldilà della risposta immediata che può dare la prossimità, per un’altra ragione è importante: avere un livello “bottom” (comunità + comuni) coeso e di cui si conoscono istanze e sfide a 360°, facilita e innalza l’efficacia dell’interfaccia con i livelli intermedi e alti di governo.

Come Fondazione Comunitaria crediamo che, per favorire lo sviluppo di questo livello, sia necessario investire nel processo di emersione e consolidamento di “beni comuni” sia tangibili che intangibili, motivo per il quale molti dei nostri progetti intervengo in tal senso».

Già il mio amico Francesco Morace, sociologo e fondatore del Future Concept Lab descrive la penisola italiana come un immenso, risonante, emittente Laboratorio creativo dal potenziale gigantesco. Pensi che la soluzione possa passare attraverso la costituzione di una costellazione di Design Lab Permanenti, parte di una più grande sovrastruttura, capace di poter accogliere, in tempo reale, istanze e professionalità altamente specialistiche al suo interno?

«Assolutamente sì. E per spiegartene le ragioni, porto una metafora del mondo vegetale che, a mia volta, ho appreso dal nostro Direttore, Giuseppe La Rocca. Le nostre società sono come le oasi nel deserto. Nelle oasi ci sono tre livelli di piante: le piante basse, preziose per trattenere l’umidità nel terreno; le piante medie che forniscono nutrimento, cioè i frutti; le piante alte che garantiscono ombra e sostegno alla biodiversità locale. Ogni livello col proprio ruolo consente la resilienza delle oasi desertiche anche di fronte ai cambiamenti climatici. Allo stesso modo, ogni società necessita di livelli “bottom” proattivi nel trovare soluzioni e nel far presenti le proprie istanze ai livelli superiori.

Come Fondazione Comunitaria esercitiamo il nostro ruolo, attivo e proattivo, nel livello medio, come infrastruttura sociale di comunità che mantiene e sviluppa relazioni corte (locali) e relazioni lunghe (extra locali e internazionali) con il fine ultimo di accrescere le opportunità di sviluppo per persone e organizzazioni del nostro territorio».

Dal cucchiaio alla città. A mio avviso, questa frase potrebbe essere il necrologio di tutta la stagione dell’utopia modernista, spazzata via dalla pochezza dei suoi contenuti umani. In ogni caso, oggi potrebbe essere mutuata in dal cucchiaio alla città e dalla città al cucchiaio! Chiudendo il cerchio, una volta per tutte, senza indugi, con la ferocia, benefica ed augurale, persino formativa, del buon padre di famiglia. Tu lavori per lo sviluppo sociale, se condannata a vivere a contatto con quelle che saranno le generazioni dei futuri operatori, questa nuova generazione di figure iper-specialistiche sarà chiamata all’assolvimento di un compito tanto entusiasmante quanto gravoso, quello della realizzazione di un nuovo scenario esistenziale. Quale potenziale di accoglimento di questa sfida, tutta imperniata attorno alle questioni di progetto, intravvedi in questa generazione?

«Beh, era ora che nel design si parlasse di scenario esistenziale e bisogni umani! Scherzi a parte… A tutti è chiaro il valore del design puramente “estetico”. Se penso a quel design italiano, penso ad un’eccellenza che porta alta la bandiera del Made in Italy nel mondo, con impatti economici e culturali senz’altro positivi.

Ma tornando alla domanda, per chi come me lavora per lo sviluppo sociale – e non proviene da studi legati al design – la sfida che tu racconti è un fatto estremamente positivo. Siamo pronti e felici ad accogliere competenze e punti di vista prettamente legati al design per impiegarli nei nostri processi di sviluppo comunitario. Di fatto noi lo facciamo già nel team della Fondazione Comunitaria. Per portarti un esempio, TILT – Tecnologie Inclusive per Liberi Talenti è un percorso laboratoriale che a partire dal Design Thinking e dalle tecnologie insegna ai ragazzi della scuola secondaria di secondo grado a progettare prodotti e servizi digitali rispondendo a criteri di sostenibilità integrata e inclusione sociale. E questo lo fa un team di formatori, in parte designer. Significa fare del design uno strumento di crescita integrale: per i singoli adolescenti e per le comunità». 

Quali sono le loro traiettorie d’ingaggio, non percepite dai designer che li hanno preceduti?

«Credo unicamente un ingaggio più collettivo e non solo legato alle personas. Qualcosa che vada oltre l’intervista qualitativa o il test del prototipo. Qualcosa che rifocalizzi dall’utente-persona, all’utenza-comunitaria.

Come Fondazione Comunitaria interpretiamo questa missione di ingaggio “tendendo la porta sempre aperta” in modo da creare communitas e non immunitas. Viviamo sui territori, creiamo alleanze ibride, sproniamo il terzo settore ad “uscire” dal mondo “sociale” ed esplorare contesti nuovi, interpretiamo la nostra stessa Fondazione come una organizzazione di “proprietà” della società civile».

La Natura si riappropria del suo potenziale creativo, esibendo una ricchezza di contenuti, di elementi generativi estremamente seducenti e, di una forza devastante, ed io non nutro ormai alcun dubbio, sull’inefficacia di un mondo troppo progettato, troppo disegnato, un mondo ostile ad ogni possibilità di riconoscimento del vivere umano. Quale è il tuo pensiero in merito a tale riflessione?

«Che serve lasciare spazio alla creatività, all’improvvisazione, all’esigenze dei tempi. Nei miei 7 anni di permanenza a Milano due cose mi mancavano della Sicilia: il mare e i vuoti. E non è un caso che una città siciliana fra tutte mi abbia “convinto” a tornare giù: Palermo. La città dei vuoti: i vuoti dell’incompiuto, i vuoti del distrutto, i vuoti delle corti dei palazzi storici… Ed è bellissimo vedere come ogni volta che mi reco a Palermo qualche vuoto cambia forma e destinazione. E ogni cambiamento è manifestazione di istanze sociali e culturali cambiate o di comunità cambiate, dato che viviamo tempi di nomadismi.

E ciò vale tanto nella progettazione degli spazi, quanto nel nostro operato di progettazione dei processi sociali. Per quanto noi progettisti ci apriamo a progettazioni partecipate, ci sarà sempre un’istanza non sentita o non ancora emersa.

Motivo per il quale, in questi anni di sviluppo della Fondazione Comunitaria, spesso siamo andati “oltre” il nostro piano strategico, proprio per abitare quelle nuove esigenze, domande, bisogni che il lavoro sul campo ci ha posto davanti».

“In qualunque caso si può simulare, tranne quando si tratta dei luoghi. Un uomo, in ogni condizione, deve potersi mettere in un angolo con la certezza che è il suo, almeno per un po’, o che nessuno lo manderà via di lì. Tutto il resto viene dopo”. Questa frase, tratta da “Un uomo temporaneo”, di Simone Perrotti (Frassinelli, 2015, NdA), ci introduce al quesito inerente all‟attualità del concetto di Genius Loci ed al riconoscimento, da parte degli individui sociali, in una matrice identitaria legata al contesto ove si snoda la nostra esistenza. Cosa accade nell‟era digitale, ha ancora senso parlare di taluni concetti, per noi dapprima considerati imprescindibili, nell’esercizio della questione di progetto?

«Abbiamo parlato di design per la costruzione di uno scenario esistenziale, design che sosteniamo. Di conseguenza sono imprescindibili per noi concetti come quello del genius loci. Più che il digitale, vedo in contrasto e a “minaccia” del concetto di genius loci il sempre crescente fenomeno di nomadismo, la fluidità geografica delle nostre vite che impatta sulle identità dei luoghi. Penso ai territori dell’entroterra siciliano, ai territori montani della nostra Regione e a quanto fossero forti le loro identità. Poi c’è stata la forza accentratrice delle città, del Nord Italia, e quelle identità si sono perse insieme ai flussi migratori. Ma, quelle stesse identità sono state riacquisite, seppur in formule diverse, dai territori che hanno accolto quei nomadi. Penso quindi che concetti come il genius loci debbano restare forti nelle progettazioni, seppur consci dei vuoti identitari che devono essere colmati.

Sicuramente, asset economici sempre più basati su risorse intangibili, sul digitale, possono acuire la difficoltà nel cercare nuove identità. Di contro, penso a quanto fosse semplice identificarsi in attività produttive basate su risorse tangibili – lo dimostrano gli innumerevoli slogan “la città del vino, del legno, del corallo, dell’oro” e via dicendo. Tuttavia, ritengo che l’era digitale non ostacolerà nuove identità. L’economia dei nostri tempi è fatta di know-how, di valori, di emozioni. Tutti elementi cardine nei processi di costruzione identitaria. 

Per noi, come Fondazione Comunitaria, identità significa prima di tutto impegno a rendere questi luoghi, queste comunità locali che abitiamo dei luoghi che includono, che generano coesione sociale, senza domandarci cosa “non” fanno gli altri, ma impegnandoci in prima persona per ciò che ci sta a cuore».

Conosco il tuo designer preferito, sono io. Ahahahahah… Scherzi a parte, hai un designer che ami profondamente? Un Autore che ti appassioni in maniera irriducibile al punto da indurre i giovani allievi ad analizzarne i criteri d‟intervento, per la costituzione di un loro personalissimo approccio di metodo nell‟ambito di diverse discipline di progetto, differenti ambiti applicativi.

«Victor Papanek. Per la visionaria e anticipatrice dirompenza».

Cosa puoi dirmi del vostro approccio di metodo??

«Il paradigma socioeconomico della “generatività sociale” – sviluppato in Italia dal gruppo di ricerca guidato dal prof. Mauro Magatti – è l’approccio scelto per orientare le attività della Fondazione di Comunità. Si tratta di un nuovo modo di pensare e di agire personale e collettivo che racconta la possibilità di un tipo di azione socialmente orientata, creativa, connettiva, produttiva e responsabile, capace di impattare positivamente sulle forme del produrre, dell’innovare, dell’abitare, del prendersi cura, dell’organizzare, dell’investire, immettendovi nuova vita. Ben al di là dell’aspetto biologico (il mettere al mondo un figlio), “generare” è espressione di quella energia interna che apre le persone al mondo e agli altri, così da metterle in grado di agire efficacemente e contribuire creativamente a ciò che le circonda. Dotando individui e gruppi di nuove capacità per agire e partecipare, migliorando l’ambiente e responsabilizzando persone e collettività/contesti, contribuendo consapevolmente al mutamento culturale attraverso la testimonianza della propria azione, le organizzazioni generative investono contributivamente in nuove infrastrutture sociali e rigenerano beni comuni, significati condivisi, identità collettive, capacità individuali, forme sostenibili di lavoro e produzione.

La generatività sociale si sviluppa in tre fasi, tutte ugualmente indispensabili: 1. Mettere al mondo → 2. Prendersi cura → 3. Lasciare andare».

Il tuo oggetto preferito?

«Sarò banale, ma ti rispondo la mia agenda. E lì che passano aspirazioni, pensieri, emozioni. Ci passa tutto. E infatti ci metto sempre un tempo spropositato a comprarla».


Fondazione Comunitaria di Agrigento e Trapani

Chi siamo

La Fondazione Comunitaria di Agrigento e Trapani è un’organizzazione della società civile – laica e indipendente – che promuove lo sviluppo sociale, economico, culturale e ambientale nel territorio delle province di Agrigento e Trapani.

La Fondazione di Comunità promuove e sostiene programmi e progetti che rispondono ai bisogni delle comunità volti a produrre azioni di sviluppo locale concrete, innovative e sostenibili, in grado di facilitare la creazione di beni comuni.

I nostri principali ambiti di intervento sono: 1) Promozione dell’educazione inclusiva e del welfare di comunità; 2) Sostegno alle imprese giovanili socialmente responsabili; 3) Valorizzazione del patrimonio culturale e naturale dei territori.

La costituzione della Fondazione Comunitaria di Agrigento e Trapani si inserisce nel programma di sostegno alle Fondazioni di Comunità nel Mezzogiorno promosso dalla Fondazione CON IL SUD.

Cosa sono le Fondazioni di Comunità?

“Le Fondazioni di Comunità sono delle infrastrutture sociali che, per le proprie caratteristiche di indipendenza, neutralità e trasparenza, diventano degli acceleratori di progettualità su cui far convergere risorse comunitarie pubbliche e private, stabilendo alleanze e favorendo co-progettazioni su problematiche complesse, identificate come prioritarie dagli enti e dai cittadini del territorio di riferimento. Le Fondazioni di Comunità sono delle vere e proprie piattaforme di partecipazione e catalizzazione di risorse per il benessere delle comunità”.                           

Estratto da “Guida sulle Fondazioni di Comunità in Italia”, Assifero e European Community Foundation lnitiative.

Bio Daniela Avanzato

Daniela Avanzato si laurea in Economia e Gestione dei Beni Culturali e dello Spettacolo all’Università Cattolica di Milano. Dopo gli anni di studio e qualche breve parentesi lavorativa a Milano, torna in Sicilia. A scommettere sul Sud. Lo fa come Coordinatrice dei Programmi di Cooperazione Locale della Fondazione Comunitaria di Agrigento e Trapani, come Imprenditrice Sociale, ma anche in declinazioni personali e non solo professionali.

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