Rischio di default inferiore al 3% per le imprese con Ceo femminile. Nelle istituzioni pubbliche le quote rosa rimangono ancora limitate
ROMA – Le imprese più virtuose dal punto di vista finanziario (meno rischiose sotto il profilo creditizio, con indicatori di sostenibilità maggiormente positivi e un tasso inferiore di infortuni sul lavoro e di contratti a termine) sono quelle più bilanciate sotto il profilo del ‘gender gap’, soprattutto ai livelli apicali.
In particolare, le aziende con un Ceo donna e un Cda a prevalenza maschile presentano un rischio di default inferiore al 3% (2,97%), mentre la percentuale è più che raddoppiata nelle imprese senza gender mix: 6,79% nelle aziende a totale guida maschile e 7,29% in quelle, al contrario, a totale guida femminile. Situazione intermedia (4,43%) laddove il Cda ha un’ampia rappresentanza di donne e il Ceo (o amministratore unico) è uomo.
Lo rileva Cerved Rating Agency, l’agenzia di rating italiana specializzata nella valutazione del merito di credito di imprese e nella misurazione delle performance Esg, che ha analizzato le oltre 14.000 società di capitali per le quali ha emesso un rating creditizio.
Secondo lo studio, le imprese con bilanciamento di genere si trovano maggiormente al Nord (1.059, pari al 17,78%) e al Centro (227, 14,09%), mentre in proporzione sono molto poche al Sud (139, 7,19%), ma in tutti i casi presentano livelli di rischiosità di almeno 2 punti percentuali (al centro addirittura di quasi 3,5) inferiori alle aziende più polarizzate sui generi.
Le regioni con una più alta percentuale di imprese gender-balanced sono Valle d’Aosta (23,33%), Friuli-Venezia Giulia (21,66%), Piemonte (20,62%), Liguria (18,98%), Lombardia (17,36%), Emilia Romagna (17,23%), Toscana (16,55%) e Veneto (15,64%).
Maglia nera al Sud: in Calabria, appena il 5,08% presenta un bilanciamento di genere ai vertici (nonostante il livello di rischio per queste aziende sia praticamente la metà, da 8,62% a 4,24%), in Sicilia il 5,74%, in Basilicata il 6,12%, in Puglia il 6,40%, in Molise il 6,45% (anche qui, il rischio di default scende dall’8,28% al 2,51%) e in Campania il 7,14%.
Il gender gap nella Pubblica amministrazione
Un discorso differente va fatto, invece, per il settore della Pubblica amministrazione. Nei percorsi di innovazione della Pa in atto nel 2022, la parità di genere nelle posizioni di vertice resta, infatti, un obiettivo a tendere. L’analisi della composizione di genere dell’organo di vertice politico delle istituzioni pubbliche mette ancora in evidenza una limitata presenza femminile: solo nel 16,3% delle istituzioni le donne occupano una posizione rappresentativa di vertice.
Si rilevano comunque dei lievi progressi rispetto al 2020 (16,0%) e in maggior misura al 2017 (14,7%). Lo rileva la quarta edizione del Censimento permanente delle istituzioni pubbliche di Istat relativo al 2022.
La quota di donne arriva al 21,6% nelle aziende o enti del Servizio sanitario nazionale, in cui si registra anche il progresso più significativo rispetto alle due rilevazioni censuarie precedenti (+6,5 punti percentuali rispetto al 2020 e +5,4 rispetto al 2017). Seguono gli enti pubblici non economici (19,1%) e le amministrazioni centrali dello Stato (18,8%).
A poca distanza si collocano inoltre i Comuni tra i 5 e 20mila abitanti (18,0%) e le altre forme giuridiche (17,9%). La quota femminile più bassa si registra nelle Regioni (7,7%), peraltro in calo di 2,6 punti percentuali rispetto al 2017, e nelle Province e Città metropolitane (8,8%). Tra le altre istituzioni si rilevano le Università, dove si è avuto un aumento di donne di quasi 3 punti percentuali rispetto al 2017.
Nel Mezzogiorno il numero più basso di donne ai vertici delle istituzioni
Il Mezzogiorno rileva i livelli più bassi di presenze femminili ai vertici delle istituzioni (10,9%) e il Nord-Est quelli più alti (20,9%). L’incidenza più bassa si osserva in Campania (5,8%) e la più elevata in Friuli Venezia Giulia (23,1%). Un progresso significativo si registra nella Provincia Autonoma di Trento (+9 punti percentuali rispetto al 2017), mentre la Sardegna si distingue per la riduzione più consistente (-3 punti percentuali rispetto al 2017).