Un fiume nelle viscere della città di Catania - QdS

Un fiume nelle viscere della città di Catania

Giuseppe Sciacca

Un fiume nelle viscere della città di Catania

giovedì 26 Maggio 2022

Il fiume Amenano dal medioevo e sino a gran parte dell’ottocento è stato chiamato Judicello giacchè attraversava i quartieri ebraici della città

La bella piazza duomo di Catania, con i suoi imponenti ed austeri edifici che ne delimitano il perimetro, forse non a torto viene da tanti considerata l’epicentro della città; certamente, non perché in essa si intersecano le sue più tradizionali ed antiche strade cittadine: via Etnea, via Garibaldi e via Vittorio Emanuele II, ma perché punto di contrapposizione e di equilibrio di forze antitetiche, come già al primo colpo d’occhio si percepisce dalla caratteristica cromia dei suoi palazzi, in un barocco che, rigorosamente, alterna il bianco al nero. Ad oriente dell’ampia della piazza sorge l’imponente fabbrica del duomo, dedicato a Sant’Agata, patrona della città etnea. Fronteggia la cattedrale, al centro della piazza, la fontana dell’elefante, da sempre simbolo della città, con la scultura, in pietra lavica nera, del simpatico pachiderma con le grandi zanne bianche, che porta sul dorso un antico obelisco di provenienza egiziana, su cui sono incisi geroglifici attinenti il culto della dea Iside.

Le origini del “Liotru”

Il cui nome, nel dialetto di questa terra divenne “Liotru”, forse per corruzione, nella parlata locale, del nome Eliodoro, o addirittura in onore di costui. Un uomo, vissuto nella seconda metà dell’VIII secolo, che la leggenda vuole fosse mago e che addirittura avesse prodigiosamente foggiato l’elefante con la lava incandescente dell’Etna, con una innegabile, ma sacrilega, analogia alla creazione dell’uomo, narrata nel racconto biblico della Genesi, in quanto gli avrebbe dato vita, insufflando il proprio respiro tra le fauci della bestia. E così l’elefante di magma sarebbe divenuto un essere vivente, capace di volare, in groppa al quale Eliodoro, secondo il mito, andava ovunque sorvolando la città. Ma al mago si contrappose Leone II, quindicesimo vescovo della città dal 765 al 785, proclamato santo dalla chiesa cattolica ed a cui è intitolato un popoloso quartiere della città, ubicato nella quinta circoscrizione cittadina, per l’appunto San Leone. Eliodoro accusato di pratiche di magia, di essere un fabbricante di idoli e non per ultimo di essere “discepolo degli ebrei”, finì al rogo. Una grande tela del XVIII secolo di Matteo Desiderato, che raffigura San Leone che sconfigge Eliodoro, può essere ammirata nella chiesa madre di Santa Maria di Licodia.

La fontana dell’Amenano

Sul lato sud della piazza, si trova la fontana dell’Amenano. Realizzata in candido marmo di Carrara rappresenta il fiume che la alimenta ed ancor oggi scorre nelle viscere della città. L’acqua tracimando da una grande vasca posta in alto, nel complesso marmoreo, produce un effetto a cascata che ricorda un lenzuolo, dal quale prende la sua denominazione popolare. Alle sue spalle un’ampia scalinata di scura pietra lavica conduce al tradizionale e folcloristico mercato del pesce. Il fiume Amenano dal medioevo e sino a gran parte dell’ottocento è stato chiamato Judicello, giacchè attraversava i quartieri ebraici della città, prima di essere stato coperto dalla lava dell’eruzione dell’Etna del 1669, che è stata la più devastante che si ricordi in epoca storica.

L’insigne naturalista e geologo siciliano Carlo Gemmellaro (1787-1866) ha tracciato il percorso, oggi non più visibile, di questo fiume, che nasce sull’Etna, tra Pedara e Nicolosi, ma le cui acque, vedevano la luce nei pressi del Colle Majorana ed entravano in città, dove, con riferimento all’odierna toponomastica, scendevano in direzione dell’attuale Viale Mario Rapisardi, sino alla zona di piazza Santa Maria del Gesù e da qui alimentavano il lago di Nicito, per proseguire in direzione di via Botte dell’Acqua, giungendo in zona piazza Dante, dove la conformazione dei luoghi ne favoriva il deflusso verso piazza Duomo e ne predisponeva la formazione in tre bracci che raggiungevano il mare, nella zona dell’attuale porto.

Catania sino al 1493, data in cui ebbe definitiva attuazione in Sicilia il decreto di espulsione dei giudei, che non si fossero immediatamente convertiti alla religione cattolica, emesso il 14 marzo dell’anno precedente dai sovrani di Spagna Ferdinando II d’Aragona ed Isabella I di Castiglia, contava non meno di 2400 ebrei, pari a circa un settimo dell’intera popolazione della città, che vivevano in due quartieri ebraici detti giudecche, che avevano origine nella zona del Castello Ursino e proseguivano lungo il declino sino a giungere all’attuale pescheria.

Gli ebrei che vi abitavano svolgevano tutte le attività artigianali tradizionali e di piccolo commercio, ma tra loro non mancavano i tanti, apprezzati, esercenti attività intellettuali quali maestri, amministratori, uomini di legge e medici, questi ultimi molto richiesti anche per le cure di infermi cristiani sebbene ciò fosse proibito dalla legge. Le loro attività di bottega li inducevano a collocarsi presso il percorso del fiume Judicello ed in modo più spiccato questa esigenza era sentita dai conciatori di pelli, dai tintori di stoffe e dagli addetti alla lavorazioni di tessuti e di sete. La loro espulsione dalla Sicilia, oltre ad essere un atto di inaudita ed ottusa ferocia, diede occasione di ogni sorta di sciacallaggio anche per la conseguente vendita, a prezzi vili, dei beni che restavano abbandonati, giacché gli espulsi potevano portare con loro pochissime cose.

Così come era stato presagito dai nobili più avveduti, la cacciata degli ebrei rappresentò una grave perdita per l’economia dell’isola e privò le classi dominanti di una popolazione di contribuenti avvezzi a pagare, senza batter ciglio, ogni tassa, tributo e balzello che venisse loro imposto, anche per le ragioni più evidentemente pretestuose, per continuare ad abitare in una terra che ormai sentivano come la loro seconda patria.

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