Vincenzo Mineo, durante il Maxiprocesso fu a capo della sicurezza dell'aula bunker costruita nel carcere dell’Ucciardone. Aveva parlato con il QdS pochi giorni fa. Questa notte ci ha lasciato.
È stato definito “il custode dell’aula bunker”. Vincenzo
Mineo, durante il Maxiprocesso fu a capo della sicurezza dell’aula
bunker costruita nel carcere dell’Ucciardone dove, per la prima volta, Cosa
nostra fu sconfitta da una raffica di condanne. Collaborò, in quel periodo, con
Giovanni Falcone e con i magistrati del pool. Non aveva ancora compiuto 70 anni
ma ci ha lasciato questa notte, colpito da un infarto. La settimana scorsa lo
avevo chiamato per farmi raccontare da lui quel periodo. Oggi, mentre trascrivo
la nostra chiacchierata, mi rendo conto di aver perso non un semplice
conoscente ma un amico, sensibile, generoso e un grand’uomo mai pieno di sé e
del suo ruolo.
Dottor Mineo, quando
ha incontrato per la prima volta Giovanni Falcone?
“Tutto inizia in quella caldissima estate del 1985, quando il dottor Falcone e il dottor Borsellino erano all’Asinara e stavano scrivendo l’ordinanza del Maxi-processo. Avevo allora 33 anni e, in quell’estate, sono stato chiamato dal presidente del Tribunale che mi dice che l’aula bunker era in costruzione e che c’era bisogno di qualcuno che se ne occupasse. Inoltre, da lì a pochi mesi, ci sarebbe stato il Maxi-processo da seguire e mi chiese se me la sentissi. Per un attimo mi sentii spiazzato perché ci trovavamo davanti a un mostro. Il mio primo incontro fu quindi con il cantiere in costruzione dell’aula bunker. Andai in quel luogo assieme al consigliere Piero Grasso, che era appena stato designato come giudice a latere della Corte d’Assise che avrebbe poi celebrato il Maxi.
Il cantiere era blindatissimo, si lavorava 24 ore su 24 per rispettare i tempi di realizzazione. Una struttura di quella portata fu realizzata in solo nove mesi, dal progetto alla consegna, e questa fu un’anomalia per l’Italia, se pensiamo ai nostri ponti e alle nostre grandi vie di comunicazione. L’input partì da Giovanni Falcone. L’idea iniziale era quella di non celebrare il processo a Palermo perché si riteneva fosse troppo pericoloso. Giovanni Falcone s’impuntò e disse che il processo si DOVEVA fare a Palermo “perché in questi anni noi abbiamo lavorato a Palermo, perché la mafia è a Palermo e la risposta va data a Palermo, non altrove”. Fu una presa di posizione molto importante.
Si trattava di un
processo straordinario non solo per i contenuti ma anche per la sua dimensione.
Quale fu il suo lavoro?
“Io avevo già avuto contatti con l’Ufficio Istruzione ma in quell’occasione ci fu il mio primo incontro con Giovanni Falcone, qualche mese prima del deposito dell’”Ordinanza di rinvio a giudizio” che avvenne l’8 novembre del 1985. Dal deposito partiva la competenza del tribunale, ossia la nostra. Mi fu assegnata, nell’Ufficio Istruzione, la stanza di Barbara Sanzo, la segretaria di Falcone. Cominciai a parlare con loro e mi fecero “vedere” il processo. L’attuale “bunkerino”, oggi luogo della memoria, conteneva una quantità incredibile di faldoni. Nessuno di noi, né giudici né funzionari, aveva mai lavorato a un processo di quelle dimensioni. In quella fase, quella del trasferimento dall’Ufficio Istruzione alla Corte d’Assise, mi occupai, da solo, di tutte le posizioni processuali dal punto di vista dei provvedimenti sulla libertà personale. Tenga conto che, prima del rinvio a giudizio, c’erano 706 indagati che diventarono 475 imputati rinviati a giudizio di cui circa 300 erano detenuti”.
Un lavoro molto
faticoso nel pieno della seconda guerra di mafia e dopo l’assassinio, proprio
da parte della mafia, di diversi magistrati.
“Per fortuna avevamo un importantissimo punto di riferimento che era il dottor Antonino Caponnetto. Fu per me un incontro bellissimo, quello con Caponnetto, persona di grandissima umanità. Ha ragione, venivamo da un periodo terribile. Nel 1971 la mafia aveva ucciso il procuratore Scaglione, nel 1979 il giudice Terranova poi, nel 1980, il procuratore Costa e nel 1983, solo due anni prima, il consigliere Chinnici. Ma c’era ancora il sangue a terra di Ninni Cassarà e di Beppe Montana. Il loro omicidio fu il tentativo più violento per fermare la storia che di quello che sarebbe stato il Maxi processo.
Ricordiamo che Cassarà era uno dei più stretti collaboratori di Giovanni Falcone, realizzò il “Rapporto dei 162” che fu prodromico al Maxi processo, e che Montana era a capo della prima “Catturandi” e si occupava di trovare i latitanti. In tutto questo ci fu anche la vicenda di Marino e proprio in quell’estate fu smantellata la più bella Squadra Mobile che Palermo abbia mai avuto. Questo, inevitabilmente, fu un grande schiaffo al contrasto alla mafia. Grazie all’”Ordinanza di rinvio a giudizio”, però, si riuscì a ripartire.
Ricordo diversi episodi di quel periodo perché quello fu un momento importantissimo. Cominciammo immediatamente a lavorare per il processo che avrebbe dovuto iniziare tre mesi dopo, il 10 febbraio del 1986. Quei tre mesi furono molto intensi sia per il completamento dell’aula bunker sia per il trasferimento del processo in aula e, soprattutto, per i preparativi del processo in Corte d’Assise. Era in vigore il vecchio Codice di procedura Penale e bisognava notificare il “decreto di citazione a giudizio” ai 475 imputati ognuno dei quali aveva, mediamente, due avvocati.
Raggiungemmo una sinergia mai vista prima di allora con il Ministero della Giustizia, il Ministero dell’Interno, Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza. Deve sapere che un “decreto di citazione” è, normalmente, un volume di circa 1200 pagine per la prima volta stampato con le “stampanti ad aghi”. Fu spedito in tutt’Italia per essere consegnato ai destinatari e da Palermo partirono furgoni e auto pieni di carta. Per ogni notifica, tra l’altro, si doveva presentare una copia doppia, una da consegnare e una da conservare controfirmata. Di fatto, il 16 dicembre 1987 il presidente Giordano lesse il dispositivo della sentenza che concludesse il primo grado del maxiprocesso: 346 condannati e 114 assolti; 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione. La conferma di tutto il lavoro del pool arrivò con la sentenza della Cassazione che fu emessa il 30 gennaio 1992 e che fu molto severa. Non solo furono confermate le condanne ma gran parte delle assoluzioni pronunciate nel giudizio d’appello per gli omicidi Giuliano, dalla Chiesa, Giaccone e altri furono annullate e per gli imputati fu disposto un nuovo giudizio”.
Dottor Mineo, dov’era
il 23 maggio 1992?
Ero a casa. Nel pomeriggio mi arrivò una telefonata dal posto di Polizia dell’aula bunker e mi informarono di aver sentito, tramite le radio di servizio, che era successo qualcosa a Capaci che riguardava il dottor Falcone. La notizia non era ancora pubblica, in quel momento. Subito dopo mi richiamarono per dirmi che il dottor Falcone era ancora vivo e che lo stavano trasportando all’Ospedale Civico. Mi precipitai subito là e la scena chi mi trovai davanti fu una di quelle che non puoi dimenticarti e che ti segnano per tutta la vita. C’erano moltissime persone, procuratori, aggiunti, sostituti, il personale del Tribunale. Ricordo perfettamente l’allora sostituto procuratore Lo Voi, che oggi è procuratore della Repubblica a Palermo, con la testa tra le mani, disperato. Quella sera accadde una cosa strana: mi trovavo in mezzo tutte queste persone poi mi ritrovai nella stanza a piano terra. Non so perché ma mi ritrovai lì con il dottor Borsellino. Eravamo in quella camera mortuaria in cui era appena stato portato il corpo di Giovanni Falcone. In quel momento la dottoressa Francesca Morvillo stava ancora combattendo tra la vita e la morte. Attorno a noi c’era un silenzio irreale, mentre fuori c’era il delirio. Per diversi minuti, io e Paolo Borsellino, ci trovammo con Giovanni Falcone. Non aveva segni nel volto, nonostante la sua tragica morte. Quel momento mi ha segnato per tutta la vita. È stato uno di quei momenti che ti fa capire qual è la parte in cui stare, la parte giusta”.
“Sit tibi terra levis”, Vincenzo.
Roberto Greco