La vicenda di Giulio Regeni, deceduto a Il Cairo, in Egitto, nel 2016 è giunta sino alla Corte costituzionale
La vicenda del dottorando italiano Giulio Regeni, deceduto a Il Cairo, in Egitto, nel 2016 è giunta sino alla Corte costituzionale e ha fatto l’oggetto della sentenza n. 192 di quest’anno.
I fatti sono noti. Il processo instaurato dinanzi alla Corte d’Assise di Roma nei confronti di quattro agenti della National Security egiziana era stato sospeso e rischiava di non potersi celebrare per il rifiuto delle Autorità di quel Paese di comunicare a quelle italiane gli indirizzi degli imputati ai quali notificare l’apertura del processo. Infatti, le ipotesi di “processo in assenza” dell’imputato previste all’articolo 420 bis del Codice di procedura penale (rifiuto dell’imputato di comparire malgrado l’avvenuta notifica, o malgrado fosse comunque provata la conoscenza della pendenza del processo; latitanza del medesimo) sono tassative e non contemplano il caso in cui l’ignoranza della pendenza del processo dipenda da ostacoli opposti dallo Stato di appartenenza dell’imputato, come nel caso di specie.
Il Giudice per l’udienza preliminare presso il Tribunale di Roma ha denunciato tale lacuna normativa, per contrasto con gli articoli 2, 3, e 117, 1° comma della Costituzione, quest’ultimo in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura ratificata tanto dall’Italia che dall’Egitto.
La Convenzione che mette al bando la cosiddetta “tortura di Stato”, posta in essere da “agenti della funzione pubblica”, prevede che gli Stati firmatari si prestino reciprocamente “l’assistenza giudiziaria più vasta possibile” per reprimere il reato di tortura e la trasmissione alle autorità giudiziarie italiane, procedenti nei confronti degli imputati egiziani di tale reato, dei recapiti degli stessi rientra senz’altro in tale obbligo di assistenza.
Nel reato di tortura la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu) ha distinto un “aspetto sostanziale” da un “aspetto procedurale” in cui è ricompreso il diritto, non solo in capo alla vittima e ai suoi familiari ma alla collettività tutta, di conoscere la verità circa le sevizie denunciate. La mancanza nell’ordinamento italiano di strumenti processuali che assicurino il perseguimento di tale verità dando luogo così ad una sorta di zona franca per gli indagati, vulnera la Costituzione perché contravviene a un obbligo previsto nel trattato contro la tortura che vincola l’Italia; perché lede il diritto inviolabile della vittima all’accertamento della verità e infine perché difetta di ragionevolezza in quanto contraddice l’obiettivo di punire i colpevoli di reati di tortura che l’Italia si è impegnata a perseguire sottoscrivendo la Convenzione.
La Corte con una sentenza “additiva” aggiunge quindi all’art. 420 bis del Codice di procedura penale un’altra fattispecie di processo in assenza dell’imputato: quando sia impossibile avere la prova che un agente della funzione pubblica sia stato messo a conoscenza del processo pendente a suo carico per il reato di tortura, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza.
La Corte ritiene che l’addizione non privi l’imputato delle garanzie costituzionali (art. 111, 2° comma Cost.) e convenzionali (art. 6 della Convenzione Edu e diritto euro-unitario) che gli attribuiscono il diritto di presenziare al proprio processo. Possono infatti essere attivati i rimedi che il nostro ordinamento ha apprestato per chi sia processato in assenza non per sua colpa e che gli consentiranno, nel caso venga a conoscenza del processo che lo riguarda, di prendervi parte comparendo in udienza o di essere rimesso nei termini per impugnare l’eventuale sentenza di condanna.