Mank, Fincher scruta e condanna un’umanità senza tempo - QdS

Mank, Fincher scruta e condanna un’umanità senza tempo

Francesco Torre

Mank, Fincher scruta e condanna un’umanità senza tempo

giovedì 10 Dicembre 2020

La scelta del bianco e nero, la teatralità dei piani statici interrotta da potenti panoramiche o da ardite sequenze di montaggio, gli omaggi citazionisti: sul piano estetico il film punta a una classicità deferente

MANK
Regia di David Fincher, con Gary Oldman (Herman J. Mankiewicz), Amanda Seyfried (Marion Davies), Tom Burke (Orson Welles).
Usa 2020, 131’.
Distribuzione: Netflix

La querelle attorno alla paternità della sceneggiatura di “Quarto potere” è datata quanto speciosa. David Fincher, o meglio Jack e David Fincher, dato che lo script di “Mank” è opera del padre dell’autore di “Seven” e “The Social Network”, vi si gettano a capofitto adottando la tesi secondo cui Orson Welles non ebbe alcun ruolo nella fase di ideazione e scrittura del capolavoro che poi diresse, e che di fatto si impossessò immeritatamente dell’unico Oscar vinto, a parte quello alla carriera attribuito nel 1970.

Detto ciò, è evidente che il film vorrebbe andare molto al di là dello steccato di una diatriba da critici cinematografici. Innanzitutto nel territorio della cinefilia. La scelta del bianco e nero, la teatralità dei piani statici interrotta da potenti panoramiche o da ardite sequenze di montaggio, gli omaggi citazionisti: sul piano prettamente estetico “Mank” punta a una classicità esibita in modo addirittura deferente, con poche idee originali e un ridondante ricorso a cliché, soprattutto nella rappresentazione degli Studios.

A un secondo livello, poi, la sceneggiatura sembra imporsi l’obiettivo di restituire in modo esaustivo la temperie culturale di un’epoca – gli anni Trenta – caratterizzata da importanti svolte sociopolitiche, da potenti scontri ideologici ma dominata, soprattutto negli States e ancor di più all’interno del comparto dell’industria cinematografica, da un estremo cinismo materialista che qui viene raffigurato in modo allegorico quasi come il frutto di un istinto primigenio. Questo aspetto “didattico” del film, apprezzabile negli intenti, pure ne sembra minare la coerenza drammatica, dando vita a un interminabile quanto a volte implausibile chiacchiericcio (una vera e propria guerriglia dialettica con ampie e spesso sgradevoli cadute aforistiche) e a digressioni anche piuttosto articolate (per esempio la battaglia elettorale per il governo della California) che poco o nulla sembrano avere a che vedere con l’intreccio principale.

È però a un livello più sotterraneo che “Mank” pretende e ottiene attenzione. Il ritratto dello sceneggiatore Herman J. Mankiewicz, che più volte rischia di sguazzare nell’agiografia, è lo specchio deforme tramite il quale Fincher – in ottica pienamente autoriale – può scrutare e condannare insieme un’umanità senza tempo, irredimibile al di là di ogni proposito morale di natura hobbesiana. A ben guardare, infatti, il modo in cui il film prende di petto i rapporti tra mass media e società e tra mass media e politica, mettendo l’industria cinematografica di fronte alle proprie responsabilità storiche, non è così differente dall’indagine sui riflessi collettivi, sulla distruzione comunitaria generata dalla cultura digitale in “The Social Network”. Di più: l’ansia di Mankiewicz di rivendicare la propria identità e di combattere in difesa della libertà personale come unica forma di contestazione politica pone il personaggio in una posizione perfettamente antitetica rispetto al Mark Zuckerberg di “The Social Network”, che vive anch’egli il dramma della paternità culturale, della genesi autoriale contestata, ma dalla parte opposta. Che poi il pessimismo di Fincher riesca a raffigurare l’uno come il rovescio della medaglia del secondo, è solo il frutto di una struttura drammatica oscura, tortuosa e non sempre accessibile, che cattura in ampiezza ma che punta dritta verso l’alto come una cattedrale gotica, di cui qui prende anche i colori, o meglio la loro assenza.

Voto: ☺☺☺☻☻

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