Coronavirus, psicosi collettiva e linguaggio isterico - QdS

Coronavirus, psicosi collettiva e linguaggio isterico

redazione web

Coronavirus, psicosi collettiva e linguaggio isterico

lunedì 30 Marzo 2020

Il semiologo Gianfranco Marrone ha analizzato i dialoghi "senza controllo" di questa pandemia che assomiglia "a un mondo alla rovescia come in un triste Carnevale: abbiamo perduto ogni punto di riferimento: è tutto al contrario"

Emergenza, paura, contagio, restrizioni. Sono le parole che rimbalzano quotidianamente nella nostra mente in questi tempi di lotta al coronavirus, nemico invisibile ma micidiale.

“I media ci stanno rimandando uno scenario assai più complesso, dove tutte le ansie, le contraddizioni, i principi, i valori della società contemporanea si sono radicalizzati” dice Gianfranco Marrone, saggista e scrittore, ordinario di Semiotica nell’Università di Palermo che ha analizzato il linguaggio e i comportamenti al tempo della lotta al Covid-19.

“Abbiamo sentito parlare – osserva lo studioso – di complotti, allarmismi, fake news, ma in modo isterico, con pareri di esperti che litigano fra loro, per non parlare dei politici senza controllo”.

Un sorta di psicosi collettiva, insomma, almeno in alcune parti della popolazione.

“La mia impressione – dice – è che la pandemia abbia creato un mondo alla rovescia, dove tutto è ribaltato in una specie di tristissimo Carnevale: i paesi ricchi sono più sfigati di quelli poveri, la freddezza nordica è migliore del calore mediterraneo, la distanza fra le persone è più indicata che non il contatto dei corpi, l’isolamento è meglio della socialità, stare a casa è meglio che uscire, la rete sostituisce la piazza, l’on line prende il posto del cartaceo”.

“Al di là delle angosce per il contagio in sé – risponde il semiologo – , mi sembra che abbiamo perduto ogni punto di riferimento: è tutto al contrario”.

Una situazione che determina diffidenze e allontanamento tra le persone.

“Una delle cose che più sta pesando alla gente – spuega Marrone – è questa imposizione di tenere la distanza, anche fra i familiari o all’interno della coppia, è segno di una relazione interpersonale. Tenersi a distanza significa allontanarsi anche affettivamente, e viceversa. Ogni distanza ha un significato. Quel che sta succedendo oggi, dunque, è che cambiando le distanze cambiano pure i significati. Oggi vogliamo bene a persone che stanno a tre metri da noi: ma di che affetto si tratta realmente? Stiamo diventando tutti anaffettivi?”.

E naturalmente di questo ne risente la vita quotidiana che è affrontata in modo diverso dal passato, con maggiore stress emotivo.

“A me sembra – risponde il semiologo – che il problema più grave non sia quello di star chiusi in casa, ma di cambiare il ritmo della nostra esistenza. C’è chi non ci riesce, e per esempio resta tutto il giorno in pigiama, uomini che non si fanno la barba, o donne che non si truccano, c’è chi guarda le notizie in modo maniacale, tiene accesa la televisione giorno e notte. E c’è chi invece prova a tenere i ritmi di prima, improvvisando palestre in salotto, indossando giacca e cravatta per mostrarsi al video del computer, ostinandosi a fare riunioni su riunioni via skype”.

“La cosa più difficile – conclude – è inventarsi nuovi ritmi, ritrovare nuove forme di affetto con chi sta a casa con noi o con chi possiamo sentire solo via telefono, cambiando le percentuali fra lavoro e tempo libero, trovando un nuovo senso nel non far nulla. È il momento della pigrizia felice, approfittiamone”.

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