Meryl Streep, Gary Oldman e Antonio Banderas in un film dai toni leggeri ma dall’anima nera, politicamente rabbioso ed esplicito negli attacchi contro i paradisi fiscali, soprattutto statunitensi
PANAMA PAPERS
Regia di Steven Soderbergh. Con Meryl Streep (Ellen Martin), Gary Oldman (Jürgen Mossack), Antonio Banderas (Ramón Fonseca)
Usa 2019, 95’.
Distribuzione: Netflix
Ellen Martin, moglie, madre e nonna piccoloborghese e premurosa, è costretta a convivere con la tragica scomparsa del marito, annegato in un incidente in barca. Le viene promesso un risarcimento economico ma scopre di essere vittima di una truffa che da una fittizia compagnia assicurativa americana passa per un broker senza scrupoli con una doppia vita tra Miami e l’America centrale e infine approda a Panama City, tra le scrivanie di uno studio legale con sedi in tutto il mondo. Che fa Ellen Martin? Prende un aereo per Panama, naturalmente.
Dallo scandalo internazionale dei Panama Papers, Steven Soderbergh (“Sesso, bugie e videotape”, “Erin Brockovich”, “Ocean’s Eleven”, solo per citare alcuni titoli di una filmografia ormai imponente a cavallo tra essai e mainstream) trae un film dai toni leggeri ma dall’anima nera, politicamente rabbioso ed esplicito negli attacchi contro i paradisi fiscali, soprattutto statunitensi.
Il piano-sequenza iniziale e soprattutto quello finale ci dicono molto, quasi tutto sui fondamenti estetici e linguistici del cinema di Soderbergh: linearità espressiva, dialoghi brillanti, messa in luce dei meccanismi della finzione cinematografica (qui addirittura con abbattimento della quarta parete) e una continua ricerca di senso proprio tramite gli strumenti di indagine del metacinema.
Il risultato è abbastanza gustoso, soprattutto nella prima parte, che con la consueta mirabile armonia di un montaggio alternato unisce il piccolo e il grande, il particolare e l’universale, l’intimo e il sociale, in una narrazione ironica (la scansione a capitoli ricorda lo stile di Wes Anderson) con tante sorprese visive.
Più aneddotica e inutilmente logorroica, invece, la seconda parte, che introduce personaggi e trame secondarie che non aggiungono niente né alla comprensione dei fatti storici né al tono e all’esuberanza del film (e anche questa mancanza di asciuttezza formale è un tratto abbastanza comune del cinema di Soderbergh).
Tra green screen e camerini, però, in un finale sofisticato per linguaggio e interpretazione attoriale risuona l’urgenza di recuperare i fondamenti della comunicazione audiovisiva, con una fiducia nel potere trasformativo del mezzo cinematografico che sorprende in un film della maturità di un regista che già anni fa aveva annunciato il ritiro dalle scene.
Voto: ☺☺☺1/2☻