La primavera è già entrata, tra giorni, equinozi e calendari, marzi cangianti e pazzerelli. E le donne rinascono, escono fuori dai piumini neri, dagli stivali pesanti, dai maglioni soffocanti, come le fioriture dei mandorli, come le granite che ritornano nei bar della Sicilia. Anche se le giornate improvvisamente impazziscono, con temperature rigide, umide e piovose, le donne, intrepide e strafottenti, escono dai portoni senza calze, con le gonne al vento svolazzanti tra pieghe e plissé, alcune con il decolté, altre perfino con i sabot.
Magari a Catania sono più ardite, percorrono fiere via Etnea con il vulcano sullo sfondo, tra balate nere lucide di acque cadute dal cielo, a Palermo magari più contenute e prudenti, riservate e giudicate, guardano curiose le vetrine di una via Libertà, una volta Liberty, che tra Gucci e Prada promettono regalie perdute. Ma la rinascita femminea serpeggia per tutta un’isola, da Ortigia a Favignana, dove novelli Ulisse cercano Penelopi. Un’isola continente, di bellezze incontinente, degna della Venere di Aidone, devota a Cerere e alle sue fecondità, con la grazia di sante martiri ed eremite, come Rosalia, Agata e Lucia.
Cosa sarebbe quest’isola senza le donne? Sembra patriarcale, ma “sutta sutta” è declinata al femminile. Sono loro che fanno primavera e non viceversa. Sono madri, amanti, spose e figlie, son semplicemente passanti davanti ad occhi frenati nei desideri. La Sicilia è terra di goliardìa baccante, ma anche di Sapienza, come Goliarda, che del potere muliebre si fece narrante. E se qualcuno, qualche maschio residuale, tra retromarce antropologiche e spending rewiew farmacologiche, anche in tempi di me too, osa di più, come disse Cheyenne Jason Robards in “C’era una volta il West”, “lasciatelo fare”: è un gesto maschile ormai in ritardo con una storia in senile decadenza. Il tempo è loro, tempo di primavera, di donne con le gonne.
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