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E come Eros

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E come Eros

Fabio Gabrielli  |
giovedì 03 Novembre 2022

Se nell’umano esiste un abisso, lì scendono i poeti

Lasciami sciolte le mani
e il cuore, lasciami libero!
Lascia che le mie dita scorrano
per le strade del tuo corpo.
La passione – sangue, fuoco, baci –
m’accende con vampate tremule.
Ahi, tu non sai cosa significa questo!

(Pablo Neruda)

Se nell’umano esiste un abisso, lì scendono i poeti, non per guardarlo in faccia, smisurata è la sua potenza, ma per fare esperienza della discesa e riconsegnarcela. I versi di Neruda, saggiati dall’abisso erotico, si fanno epifania del respiro, del sospiro della carne. La richiesta, quasi la supplica, della libertà delle mani e del cuore lungo la strada del corpo dell’altro suggeriscono un umanissimo esercizio di abbandono, un processo di migrazione, un morire nell’altro, nella sua atopia, nel suo essere fuoriscena, senza luogo, senza tempo. Non c’è appropriazione, volontà di sigillare l’altro nel proprio, ma rinuncia al nostro piccolo io in vista di un altro piccolo io, esposto e vulnerabile, in cui siamo chiamati a leggere un’assolutezza di carne, una conclusione, un compimento, qualcosa che non potrà mai essere indecidibile. Un perdersi per elevarsi nella comune fragilità della carne, nel suo incerto modo d’essere tra il godimento e la morte.

Si badi, non compimento come qualcosa di concluso, definitivo, trasparente al mio sguardo, ma come accoglienza di un volto che nell’atto erotico, per quanto fugace o episodico, mi ingiunge il suo riconoscimento senza riserve, quasi ad affermare: qui, ora, ci sono solo io, in tutta la dignità della mia carne malcerta, la quale altro non chiede che un’ospitalità’ assoluta, immediata, improrogabile. Eros, in fondo, ricuce tutta la sua trama visibile attorno ad una sola epifania, ad un’unica manifestazione di sé: avvolgere un corpo, avvolgersi in un corpo, irriproducibile, su cui non è possibile alcuna forma di potere, alcun linguaggio del calcolo o della trasparenza, poiché la sua opacità, la sua resistenza etica, ci impongono immediatamente una politica erotica della mancanza.

L’altro, anche nel godimento più intenso e partecipato, manca sempre, mi manca sempre, poiché in ogni suo concedersi, c’è un movimento di ritrazione; in ogni carezza che reclama, chiede un approssimarsi senza fine, permanente nell’umana incompletezza del suo gesto che, per quanto frughi nelle pieghe del corpo dell’altro, subisce sempre lo scacco del suo mistero senza fondo.

Qui si impone la tormentata epifania della pelle, in cui tutto avviene a fior di pelle: pelle esposta al rischio, all’avidità della mano, alla brama dello sguardo intrusivo e violento, che, tuttavia, è costretto al tormento, lo stesso che abita l’adolescente come quanti sono disillusi e carichi di anni, per qualcosa, una x, un’incognita, quella dell’alterità, che non possiamo mai   possedere con la certezza di un’ equazione di carne, ma sperando che la sua gioia addolcisca, disperda la nostra miseria.

E allora, ancora i poeti, con la voce di Rabindranath Tagore:

La tua gioia non trovi opposizione
nelle mie membra, né nella mia mente.
La tua gioia risplenda come pura luce
nel mio grande dolore;
la tua gioia disperda la mia miseria,
sbocci come un fiore in tutte le mie azioni.

Fabio Gabrielli – Filosofo

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