In seguito alle grandi manifestazioni pro Palestina che si sono svolte in tantissime città d’Italia, in tanti si sono chiesti se in una democrazia avanzata si debba tener conto delle esigenze che provengono dai cortei. La risposta poteva sembrare scontata, ma così non è stato.
Giorno 22 settembre i sindacati di base hanno dichiarato una giornata di sciopero generale al grido di “Blocchiamo tutto”. L’Italia è scesa in piazza in segno di solidarietà con la popolazione palestinese nella Striscia di Gaza e a sostegno della Global Sumud Flotilla. Cortei e manifestazioni hanno coinvolto tutto il Paese, da Trieste alla Sicilia. Cortei con migliaia di persone hanno sfilato a Roma, Bologna, Napoli, Milano, Genova, Palermo. Si sono fermati i trasporti, le scuole, le fabbriche. Molti anche i professori e gli studenti universitari che sono scesi in piazza.
Anche a Catania i lavoratori hanno scelto di rinunciare a parte dello stipendio per far sentire la loro voce e urlare il loro secco “No al genocidio dei palestinesi”. Presente anche un folto numero di studenti medi e liceali che, sventolando le bandiere, urlavano il loro slogan: “Free Palestine”. Il corteo catanese partito alle 10 da piazza Stesicoro e si è disciplinatamente diretto verso il porto di Catania, dove tutti i manifestanti sono alla fine confluiti.
Certo, le criticità in questa importante giornata non sono mancate: non tutti i sindacati hanno aderito allo sciopero (la Cgil aveva indetto una manifestazione parallela per la giornata del 19 settembre) e non sono mancati in alcune città gli scontri tra alcuni facinorosi e la Polizia, come a Milano e a Bologna.
Ed ecco che mentre alcuni hanno riconosciuto il successo delle manifestazioni e il crescendo di partecipazione, contro il massacro dei palestinesi, anche di persone poco “abituate” a sfilare in corteo per esprimere il proprio dissenso, altri hanno presentato lo sciopero nazionale più come un atto di disturbo della quiete pubblica (visto che il blocco dei trasporti e della viabilità ha creato disagio ai cittadini, com’è ovvio che sia) che come un atto di dissenso nei confronti della politica del Governo. “Violenze e distruzioni che nulla hanno a che vedere con la solidarietà e che non cambieranno di una virgola la vita delle persone a Gaza”, è stata la dichiarazione di alcuni rappresentanti politici di fronte a un’Italia che è scesa in piazza.
Ma in tanti hanno risposto come, pur condannando i disordini, non sia possibile insistere sulla violenza di qualche centinaio di facinorosi e non tener conto di quelle decine di migliaia di manifestanti che pacificamente in tutto il Paese hanno manifestato per Gaza. La parte “sana” dell’Italia, come ha scritto Simona Giurato, ha fatto sapere di essere stanca. Stanca “di vedere le atroci immagini della deportazione di Gaza, dei bambini sporchi con una scodella in mano che chiedono un po’ di cibo, e di essere accusata di antisemitismo solo perché non condivide la politica di Israele. La parte ‘sana’ dell’Italia dice no alla guerra, alla fame dei civili e all’assenza di ogni forma di umanità”.
La parte “sana” dell’Italia il 22 settembre è scesa in piazza invocando la pace e gridando “Free Palestine”. La democrazia deve tenerne conto.
Pina Travagliante
Professore ordinario di Storia del pensiero economico dell’Università degli Studi di Catania

