Il boxeur del design anfibio - QdS

Il boxeur del design anfibio

Luigi Patitucci

Il boxeur del design anfibio

giovedì 27 Gennaio 2022

Vincenzo Castellana, siciliano e nomade per vocazione è il profeta di un Nuovo Umanesimo Ibrido, tra digitale ed Handmade di altissimo profilo qualitativo

Oggi ho inteso raccogliere le riflessioni di Vincenzo Castellana, architetto, designer e docente di Design Strategico allo Iulm di Milano e presso l’Accademia di Design e Comunicazione Visiva Abadir di Catania, visiting professor presso il Politecnico di Milano e componente del Consiglio Nazionale di ADI Associazione per il Disegno Industriale, nonché Menzione d’Onore al Compasso d’Oro per l’operazione design oriented effettuata per la piccola azienda Dallegno srl di Grammichele, con il brand di prodotti in legno di altissimo livello Desine e, non ultimo, il lancio del brand Orografie che ha stregato l’ultima Milan Design Week 2021.

Bene, Vincenzo, quali sono, secondo te, le traiettorie di induzione alla partecipazione attiva della utenza?
“Il design è oggi più che mai una questione multifattoriale. Non è possibile gestire il progetto e le sue fasi successive senza avere un approccio olistico”.

Nei miei scritti parlo spesso di Design Therapy, ovvero della realizzazione di serie di azioni concrete nella nostra vita reale, per la produzione di un Paesaggio Risonante. Come pensi possa essere accolta, dagli enti competenti, tale procedura di attuazione di uno scenario attivo nei nostri contesti territoriali?

“Non dobbiamo aver paura di utilizzare la parola “politica” se con essa intendiamo la proiezione dei bisogni e la loro “soddisfazione” in una società in continuo cambiamento. In tal senso sono certo che si possa fare politica, nel quotidiano, e senza appartenere specificatamente ad un sistema. Si potranno generare così influenze emulative a tutte le scale anche quelle istituzionali che, spesso non hanno la velocità giusta verso il cambiamento. Nell’ultimo decennio, a tal proposito, nuove modalità di progetto hanno dato risposte importanti in queste classi di complessità: il design dei servizi, ad esempio”.

Quali limiti possiede uno strumento di pianificazione e governo dei nostri contesti ambientali, quale è quello del PRG che, per definizione ha una durata illimitata, in un’era in cui i profili d’esercizio sempre più dichiarati, delle volte con grande spudoratezza e poca adesione ai feroci parametri propri della realtà concreta, sono quelli propri della Smart City?

“Fortunatamente, più recentemente, i progettisti della pianificazione stanno valutando il progetto che governa i territori come sistemi complessi ed al contempo: puntuali e diffusi. La teoria della prossimità è, per esempio, uno di quei paradigmi utili alla risoluzione di una buona programmazione tesa alla città, appunto, ‘facile'”.

Come si conciliano questi due profili d’intervento, in un contesto urbano che non può fare più a meno di dover accogliere nella determinazione dei suoi parametri d’ingaggio e d’esercizio termini quali “temporaneità”, “provvisorietà”, “mutabilità”, “impermanenza”?

“Da un lato attraverso lo stato di necessità inderogabile dei servizi in termini digitali, e di mobilità dall’altro. Parametri, indiscutibilmente, da innestare in una logica di sostenibilità”.          

Con il salto nel nuovo millennio, si è mostrata sempre più irrevocabile la questione del ridisegno, in maniera continuata, del nostro scenario di prossimità, specie alla luce della comparsa di nuove problematiche di relazione dinamica tra entità ed individui presenti in un contesto urbano, ora resi particolarmente pressanti in ragione della presenza e dell’alternarsi di crisi economico-finanziarie, ambientali, sanitarie.

“Questo è certamente un nodo fondamentale. Ovvero, la capacità di riorganizzare la stratificazione in termini di patrimonio collettivo ed individuale. Mi riferisco, in particolar modo ai necessari, ed oramai inevitabili, principi di rigenerazione urbana. Queste dinamiche coinvolgerebbero in prima istanza i centri storici ma, non per ultimo, tutti i temi di limite e confine che riguardano le strutture di mobilità: ferrovie, aeroporti e porti. I flussi e le dinamiche delle relazioni sociali andrebbero gerarchizzate prevalentemente nelle azioni delle comunità fisiche che si muovono ed interagiscono in ambito reale e virtuale”.

Pensi che la soluzione possa passare attraverso la costituzione di una costellazione di Design Lab Permanenti, parte di una più grande sovrastruttura, capace di poter accogliere, in tempo reale, istanze e professionalità altamente specialistiche al suo interno?

“Non ho dubbi nel sostenere che tutti i temi di cui abbiamo parlato passino dalla valorizzazione e messa in rete delle attività produttive in ambito territoriale. Un percorso che qualifichi, in una direzione design oriented, i piccoli produttori, artigiani nel settore manifatturiero ed alimentare”.

Dal cucchiaio alla città. A mio avviso, questa frase potrebbe essere il necrologio di tutta la stagione dell’utopia modernista, spazzata via dalla pochezza dei suoi contenuti umani. In ogni caso, oggi potrebbe essere mutuata in dal cucchiaio alla citta’ e dalla città al cucchiaio!. Chiudendo il cerchio, una volta per tutte, senza indugi, con la ferocia, benefica ed augurale, persino formativa, del buon padre di famiglia. Tu sei docente di discipline di progetto e l’ideatore del Master in Design Strategico dal titolo “Dalla Ford al fard” presso Abadir, sei condannato a vivere a contatto con quelle che saranno le generazioni dei futuri designer, questa nuova generazione di designer sarà chiamata all’assolvimento di un compito tanto entusiasmante quanto gravoso, quello della realizzazione di un nuovo scenario esistenziale. Quale potenziale di accoglimento di questa sfida, tutta imperniata attorno alle questioni di progetto, intravvedi in questa generazione?

“La nostra generazione, che ancora lavora sul territorio nell’ambito del progetto, ha il dovere di affiancare e formare le nuove generazioni. Sui giovani, su quelli che saranno i progettisti a partire dal prossimo decennio, nutro un forte ottimismo. Tanti indicatori segnano una ricaduta diretta sul territorio e su quelle aziende che, prevalentemente, hanno colto il momento di transito “digitale” con la consapevolezza di un Nuovo Umanesimo”.

Quali sono le loro traiettorie d’ingaggio, non percepite dai designer che li hanno preceduti?

“Su questi temi dovremmo affondare riflessioni che coinvolgerebbero istituzioni ed enti formativi. Certamente l’idea che la cultura del progetto fosse unidirezionale è stata la condizione che ha generato un vuoto nelle precedenti generazioni. Fortunatamente stiamo recuperando!”

La Natura si riappropria del suo potenziale creativo, esibendo una ricchezza di contenuti, di elementi generativi estremamente seducenti e, di una forza devastante, ed io non nutro ormai alcun dubbio, sull’inefficacia di un mondo troppo progettato, troppo disegnato, un mondo ostile ad ogni possibilità di riconoscimento del vivere umano. Quale è il tuo pensiero in merito a tale riflessione?

“Il tema del vuoto e della sottrazione come materiale di progetto è la chiave. Come in un restauro filologico è necessario agire sui territori della produzione e della valorizzazione con il pennellino dell’antropologo, che in uno scavo mette in luce elementi del passato”.

“In qualunque caso si può simulare, tranne quando si tratta dei luoghi. Un uomo, in ogni condizione, deve potersi mettere in un angolo con la certezza che è il suo, almeno per un pò, o che nessuno lo manderà via di lì. Tutto il resto viene dopo”. Questa frase, tratta da “Un uomo temporaneo”, di Simone Perrotti (Frassinelli, 2015, NdA), ci introduce al quesito inerente all’attualità del concetto di Genius Loci ed al riconoscimento, da parte degli individui sociali, in una matrice identitaria legata al contesto ove si snoda la nostra esistenza. Cosa accade nell’era digitale, ha ancora senso parlare di taluni concetti, per noi dapprima considerati imprescindibili, nell’esercizio della questione di progetto?

“La nuova condizione dell’abitare ci insegna che le condizioni del progetto sono mutate nella nuova consapevolezza di una esistenza ibrida. Le migliori comunità saranno quelle ibride. Vivranno di relazioni digitali ed analogiche. Si incontreranno in uno spazio contemporaneo che li identifica nelle differenze. Credo che questa sia la prima consapevolezza della quale prendere atto”.

Conosco il tuo designer preferito, sono io. Scherzi a parte, hai un designer che ami profondamente? Un Autore che ti appassioni in maniera irriducibile al punto da indurre i giovani allievi ad analizzarne i criteri d’intervento, per la costituzione di un loro personalissimo approccio di metodo nell’ambito di diverse discipline di progetto, differenti ambiti applicativi.

“Non ho un designer preferito ma, certamente, un’area culturale all’interno della quale diversi progettisti hanno agito. Mi riferisco al secondo dopo guerra, il periodo della conversione del cambiamento della spinta verso il futuro. Personaggi come Castiglioni, Zanuso e poi a seguire Mari, Sottsass(ma imprenditori come Olivetti) sono stati quei progettisti che hanno saputo interpretare, attraverso il progetto, il cambiamento radicale di una intera stagione”.

Cosa puoi dirmi del tuo “design anfibio”?

“La definizione del design anfibio arriva dalla ricerca che conduco da quasi vent’anni oramai. E’ la risposta ad una consapevole percezione che vivremo, appunto, una nuova condizione nello scenario dell’abitare del prossimo futuro. Ovvero saremo entità, luoghi e spazi ibridi che si muoveranno indifferenti tra digitale ed analogico. La risposta però non è, come spesso si pensa, la tecnologia ma l’indagine di nuove azioni, comportamenti e rituali che la nuova condizione ci obbligherà ad assumere. Gli oggetti dovranno dare una risposta, appunto, anfibia ed analogica alle nuove funzioni che il nuovo stato ci porterà. Il progettista ha il dovere di cogliere e declinare”.

Cosa puoi dirmi del tuo “design anfibio”?
“La definizione del design anfibio è la risposta ad una nuova condizione nello scenario dell’abitare del prossimo futuro. Ovvero saremo entità, luoghi e spazi ibridi che si muoveranno indifferenti tra digitale ed analogico. Gli oggetti dovranno dare una risposta, appunto, anfibia ed analogica alle nuove funzioni che il nuovo stato ci porterà. Il progettista ha il dovere di cogliere e declinare”.

Il tuo oggetto preferito?
“La matita!”

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