Il caso Mortara - QdS

Il caso Mortara

Giuseppe Sciacca

Il caso Mortara

venerdì 09 Luglio 2021

Una triste storia che ci consente di ricordare una delle prevaricazioni che nel passato gli ebrei sono stati costretti a subire

I fatti che in breve vengono esposti sono realmente accaduti a Bologna, oltre 250 anni orsono. Oggi possono apparirci incomprensibili e persino poco credibili, invece ancora in quell’epoca erano tristemente non rari e non suscitavano neanche troppo clamore. Tornare a parlare, ancor oggi, di questa triste storia ci consente di ricordare una delle prevaricazioni che nel passato gli ebrei sono stati costretti a subire e ci mette in guardia dai pericoli a cui le minoranze ancor oggi restano esposte.

La famiglia Mortara era composta dai genitori e da otto figli, vivevano, serenamente ed in pace con tutti nella fede ebraica, secondo la loro tradizione, nella propria casa di via Lame 196.

Il 22 giugno 1858, alle ore 22.00, un gruppo di gendarmi pontifici irrompeva nella loro abitazione ed il tenente colonello, che li comandava, intimava ai coniugi Mortara che gli venisse consegnato il figlio Edgardo, un ragazzino che ancora non aveva compiuto l’età di sette anni. La insolita richiesta, venne subito motivata dal comandante, ai genitori, i quali, rimasero increduli ed ancor più impietriti, sentendo che il bambino era stato battezzato a loro insaputa ed a causa di ciò secondo la legge dello Stato Pontificio il loro figlio non poteva continuare a vivere in una famiglia ebraica.

In vero, precisò, l’ufficiale: era accaduto che una loro domestica aveva confidato all’Inquisitore, che mentre lavorava presso la famiglia, quando Edgardo, aveva l’età di circa un anno, si era gravemente ammalato e la giovane donna, ritenendolo in pericolo di vita, lo aveva fatto battezzare, per il pio fine di salvargli l’anima, senza però informare gli ignari genitori. La resistenza dei poveretti fu strenue: il padre protestò energicamente contro i militari, dicendo che non avrebbe mai consegnato il bambino, in nessun caso e per nessuna ragione; la madre, lo difese facendo scudo con il suo corpo, giurando di essere pronta a morire per proteggerlo. Una così esasperata reazione impedì che il bambino, quella notte, potesse essere portato via da casa sua. Ma neanche i gendarmi, vennero meno all’ordine ricevuto e non desistettero per un solo istante dal loro ingrato dovere e quindi restarono dentro e fuori la casa a piantonare il bambino.

I Mortara, fecero tutto quanto era possibile, si rivolsero alla Comunità Ebraica romana e ad ogni altra Comunità della penisola a cui potevano far giungere il loro strazio, affinché si attivassero nei confronti del pontefice. Malgrado il clamore che la vicenda andava sollevando, Pio IX rimase irremovibile nella sua decisione. Contro questa violenza insorsero importanti personalità di tutta Europa ed anche autorevoli personaggi del modo cattolico, che non mancarono di evidenziare la palese violazione di fondamentali diritti umani. Pio IX restò sordo ad ogni protesta e negli anni respinse sempre, fermamente, ogni richiesta di restituire il ragazzo alla famiglia. Il Pontefice si oppose a ciascuna istanza motivando il suo diniego con la circostanza che il battesimo del giovane Mortara era valido e pertanto la legge gli imponeva categoricamente di far si che il giovane ricevesse una educazione cattolica. Edgardo venne portato a Roma per essere educato ed istruito secondo la dottrina della Chiesa, così come in effetti avvenne, sotto lo sguardo vigile di alti prelati e dello stesso pontefice.

Si dice che il ragazzo inizialmente non volesse abiurare la religioni dei suoi avi, ma all’età di tredici anni intraprese il noviziato dei Canonici Regolari Lateranensi, e quindi da quel giorno visse una vita claustrale, che ebbe fine l’11 marzo 1940, nel monastero di Bouhay, nei pressi di Liegi.

La storia è ottimamente ricostruita e contestualizzato nel libro di Gemma Volli “Il caso Mortara”, Casa Editrice Giuntina.

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