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Il leone d’inverno, un classico che “racconta” i nostri tempi

Il leone d’inverno, un classico che “racconta” i nostri tempi
“Il leone d’inverno” di James Goldman

L’opera di Goldman, con la regia di Nicasio Anzelmo, ha debuttato al Brancati di Catania

CATANIA – “Il leone d’inverno” di James Goldman che, con la regia di Nicasio Anzelmo, ha debuttato in prima nazionale nel Teatro Brancati, è uno spettacolo agghiacciante, perché ad andare in scena, oltre alla miseria umana, sono mostri spaventosi, come il potere e la guerra. Sul palcoscenico, una sequenza di specchi deformanti ricorda un enorme monitor, di quelli che quotidianamente ci narrano le vicende del mondo. E spesso ribaltano ogni realtà, stravolgendola. Quante analogie con la situazione che, oggigiorno, viviamo attraverso altri monitor e display e diversi – e sempre più vecchi – leoni d’inverno. Uomini e donne, che, di fronte alla prospettiva della propria scomparsa, perdono del tutto l’interesse per l’Umanità. Ma, ugualmente, non riescono a tenere a bada un’irrefrenabile ingordigia. “Il mondo finirà quando muoio” dichiara Eleonora d’Aquitania, moglie di re Enrico II d’Inghilterra, temporaneamente liberata dal marito da una decennale prigionia e ospite, in occasione delle feste di Natale del 1183, della reggia di Chinon.

È lei la figura centrale del racconto. È la madre dei tre figli tra i quali Enrico dovrà scegliere il proprio successore al trono. Ma è madre anche di tutti gli intrighi. E di congiure, inganni, finte promesse. Madre dei continui voltafaccia che rappresentano l’essenza stessa d’ogni scontro di potere. Tesse le proprie trame e svela quelle altrui, Eleonora. “Siamo dei barbari e lo mostriamo”, afferma, mentre calpesta, con gli altri protagonisti, la mappa che fa da pavimento alla scena. Territori riflessi sullo specchio insieme a una cattedra-cattedrale – c’è sempre un tavolo, per ogni trattativa -, qualche trono e alcune corone. Così, quando i protagonisti camminano, sembra quasi di udire un rumore d’ossa spezzate e i gemiti di quei popoli – protagonisti sì, ma muti e inerti oltre che inconsapevoli -, d’ogni conflitto armato. Le vittime d’ogni tempo sono in sala, a guardare. E si rifiutano di credere a Enrico, quando afferma “Sono stanco di guerre”. Perché troppo si preoccupa dell’Inghilterra dopo la sua morte. Confessa di non sopportare d’esser paragonato a King Lear, che ridusse il proprio regno in pezzi. Vorrebbe sul trono il pustoloso Giovanni, figlio minore. Per dargli in sposa la propria, giovanissima, amante, Alais, tenendo così fede al patto sottoscritto con la Francia di re Filippo. Enrico, poi, a Giovanni affiancherebbe Goffredo, il secondogenito, uomo di raffinate astuzie.

È sul primogenito Riccardo, campione d’arte militare, che punta invece Eleonora: “Ho seguito, da lontano, tutti i tuoi meravigliosi massacri” lo apostrofa. E quello, stizzoso, “Sei incompleta: ti mancano le parti umane”. Ma Eleonora sa cambiare continuamente atteggiamento: “Non potremmo, semplicemente, amarci?” dice ai figli. E poi si chiede: “E mentre noi ci abbracciamo, Filippo che fa?”. Così porta loro dei pugnali. Bravissimo è, il regista, nel rappresentare, in un gioco di rimandi, questa strage di sensibilità, di sentimenti, di ragionevolezza, di umanità. In cui tutto diventa un gioco, per quanto tragico. “Mi piace come recitate”, dice Eleonora alla propria famiglia. Recitare, sì. Perché l’importante, in ogni maledettissima guerra, è saper recitare. Cu’ sapi fìnciri, sapi vìnciri, sostiene un vecchio proverbio siciliano. Perché occorre che la confusione regni sovrana, che nulla sia come sembra, che a un’affermazione ne corrisponda sempre un’altra uguale e contraria: “Se ci comportiamo da persone civili e mettiamo da parte i coltelli…”, “Non so più chi sono i miei amici”, “Tu sei il male in persona”, “Io ti parlo di gente e tu di province”. Ed ecco urla, sghignazzi, insulti, subdole accuse.

Ci si aspetterebbe di veder schizzare fuori come topi, da sotto il tavolo al centro del palcoscenico, non Giovanni o Goffredo, ma qualcuno dei protagonisti delle recenti vicende belliche mondiali, con i loro vaporosi capelli color arancio, o le loro tute mimetiche, o le loro maschere terribili e imperscrutabili. Macchiette ridicole. Ma di un’immane tragedia. Il pubblico, in sala, applaude. E cos’altro potrebbe fare. Grazie a questo spettacolo, ha avuto – ed è questa, da sempre, la funzione del teatro – la possibilità di riflettere. L’importante è non dimenticare. E indimenticabile è l’interpretazione di Viola Graziosi nei panni di Eleonora, mentre Maximilian Nisi è bravo a tingere d’ironia il personaggio di Enrico. Ben reso, da Davide Pandolfo, Riccardo Cuor di Leone, intensa Sofia Graiani come Alais, amante di Enrico. Efficaci Davide Ingannamorte (Giovanni), Francesco Di Cesare (Goffredo), Giulio Tropea (Filippo, Re di Francia). Dell’importanza della scena – di Vincenzo La Mendola, che firma anche i costumi – abbiamo già detto. E lo spettacolo è completato dalle musiche originali di Giovanni Zappalorto e Andrea Nicolini.