Eravamo italiani vincenti. E noi, quella generazione, vivevamo al tempo degli eroi, vivevamo al tempo di Achille
Cinque e trenta del mattino del 6 luglio. Corso Giuseppe Garibaldi, incrocio con via Umberto I, oggi via Bernardo Mattarella, ca va sans dire, Castellammare del Golfo. C’era già una mezza dozzina di persone, ancora eccitate dalla sera prima, in molti non avevamo chiuso occhio, per tanti, forse per tutti, era stata la sera della vita, quella che puoi raccontare ai discendenti. Io c’ero, sai, l’ho vista. Erano tutti insieme a me ad aspettare che aprisse l’edicola per comprare il giornale rosa. Che poi chissà perché il più letto giornale d’Italia sia rosanero, come il Palermo, è un mistero.
Era il millenovecentottantadue. La sera prima, il cinque luglio avevamo battuto il Brasile al Mundial! Un Paese anche allora inflazionato, con il debito che stava impazzendo, con Moro, Mattarella, Dalla Chiesa uccisi, con le BR che ancora sparavano, vedeva la luce, e che luce, in fondo al nostro solito tunnel da italietta
Stavamo diventando, ma ancora non lo sapevamo, campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo. Ripetuto tre volte dalla voce rotta di un uomo di una generazione scomparsa, Nando Martellini. Tricampeones, la Coppa Rimet, dal nome del suo creatore, sarebbe diventata nostra per sempre.
Battendo il Brasile diventammo Dei dell’Olimpo di un gioco che allora era grande, immenso, globale prima della globalizzazione. E Paolo Rossi, l’uomo più criticato dalla stampa, non solo sportiva, era il mercurio alato che ci aveva portato lì. Sul tetto del mondo.
Tutti in Italia non davano grandi speranze alla squadra. Era così ancora prima di andare al mondiale. Ma ora eravamo arrivati alla partita della Storia. Giocavamo con il Brasile, ma non con un Brasile qualunque. Certo non c’era Pelé, ma c’era una squadra pazzesca piena di campioni mostruosi. Zico, Socrates, Cerezo, Falcao, Leandro, Junior, Eder, facevano tremare i polsi a chiunque, ognuno di loro dava del tu al pallone, non lo toccavano, lo sfioravano come con una carezza. E la palla girava, come in un flipper paradisiaco, con i brasiliani come cherubini del calcio. Li conoscevamo bene erano i padroni del calcio italiano degli anni ’80. Forse la nazionale brasiliana più forte ed equilibrata, con il miglior gioco di sempre, con un allenatore che parlava di futbol bailado, Tele Santana un personaggio osannato come un guru dalla stampa, quanto era invece vituperato Bearzot. Erano i più forti senza dubbio, e nei miei occhi c’erano i ricordi di bambino della finale dell’Atzeca. Perdemmo, nonostante aver battuto la Germania, non ci fu partita allora.
Ma questa volta non eravamo noi, eravamo angeli astuti del calcio, correvamo incontro al pallone, giocavamo corti e di prima, usavamo l’anticipo e Gentile fece scomparire il pallone al fenomeno, Artur Antunes Coimbra, detto Zico. Antonioni danzava come il suo compagno di squadra, il filosofo Socrates, e illuminava la squadra. E li davanti avevamo il diavolo dalla faccia d’angelo, il più forte marcatore italiano di tutti i tempi, un ragazzo esile ma tenace come nessuno, Pablito Rossi.
Quella mattina all’edicola cercavamo le parole nere stampate sulla carta rosa, che avrebbero descritto quell’uno, due, tre, senza confondersi dalla forza dei gol avversari. Le parole che avrebbero raccontato il miracolo del fatto che eravamo italiani, contenti di esserlo forse per la prima volta con convinzione. Eravamo italiani vincenti. E noi, quella generazione, vivevamo al tempo degli eroi, vivevamo al tempo di Achille.
Così è se vi pare