Tra qualche giorno, il 23 settembre, si ricorderà Lia Pipitone, vittima di mafia e di femminicidio, uccisa 40 anni fa nel quartiere dell’Arenella di Palermo. In quella giornata, nell’ambito delle iniziative organizzate dall’associazione “Millecolori Onlus – Centro antiviolenza Lia Pipitone” con il Consiglio comunale dell’ottava circoscrizione del capoluogo siciliano, si ricorderà anche Rosanna Lisa Siciliano, un’altra vittima di femminicidio a Palermo, uccisa il 7 febbraio 2012 dal marito carabiniere, in un alloggio di servizio della caserma “Le Falde” dell’Arma.
Al momento in cui andiamo in stampa sono 79 le vittime di femminicidio, di cui 61 per mano di partner o ex partner. È il report del Viminale che tiene traccia dei nomi e delle statistiche ma c’è un dato che manca e che, spesso, non è riportato dalla cronaca. È quello delle vite spezzate attorno a loro, degli orfani, di cui ci dimentichiamo troppo spesso. In realtà, i femminicidi occupano le prime pagine dei giornali e scuotono l’animo dell’opinione pubblica, anche se per pochi giorni, la violenza contro le donne rappresenta un importante problema di sanità pubblica, oltre che una violazione dei diritti umani.
Nel tempo il racconto delle storie delle vittime di femminicidio è stato associato alla “Spoon River Anthology”, la collezione di poesie in versi liberi scritta dal poeta americano Edgar Lee Masters che fu pubblicata dal maggio del 1914 al gennaio del 1915 sul Reedy’s Mirror, un giornale di Saint Louis nel Missouri, ma in questo caso è necessario andare oltre. Si tratta, tutte le volte, di un epitaffio, una di quelle iscrizioni funebri il cui come scopo è onorare e ricordare un defunto. Un epitaffio che suscita sentimenti che vanno dal disgusto alla rassegnazione ma che, non essendo scolpito sul marmo, entra presto in quelle zone della memoria destinate all’oblio.
Non c’è nessuna differenza tra Nord e Sud, tra italiani e stranieri, tra ricchi oppure poveri. Quello non conta, la violenza di genere è assolutamente democratica e sa infilarsi e proliferare, a volte per anni e indisturbata, ovunque. La violenza ha effetti negativi a breve e a lungo termine sulla salute fisica, mentale, sessuale e riproduttiva della vittima. Le conseguenze possono determinare per le donne isolamento, incapacità di lavorare, limitata capacità di prendersi cura di se stesse e dei propri figli.
I bambini che assistono alla violenza all’interno dei nuclei familiari possono soffrire di disturbi emotivi e del comportamento, inoltre gli effetti della violenza di genere si ripercuotono sul benessere dell’intera comunità. Ci si continua a concentrare sul tragico atto finale, la morte, ma si continua a guardare il dito e non la luna, per parafrasare un proverbio spesso abusato dai politici ma forse nel caso dei femminicidi è particolarmente calzante perché tutto ha un inizio e, purtroppo, una fine spesso tragica. Lo dimostrano gli eventi. Di frequente tutto inizia con una lite domestica che si trasforma in un sistema di violenze all’interno del domicilio familiare, quella “casa” che dovrebbe essere, per antonomasia, sicura. Violenze fisiche, psicologiche ed economiche sono il passo successivo. Da quel momento in poi parte un sistema perverso basato sugli “scusami”, sui “ma io ti amo…” o “sei tu che mi costringi”.
Ci interroghiamo spesso quali siano gli strumenti, non tanto di contrasto ma, e soprattutto, di prevenzione. Non è più possibile nascondersi dietro l’alibi del patriarcato, della ricerca a tutti costi dell’alibi per il carnefice e del facile giudizio nei confronti di una donna che è definita al di fuori degli schemi, per usare un eufemismo, per i suoi comportamenti. Il nostro modello, malato, di società consente alle persone di genere maschile di ubriacarsi, di gestire con disinvoltura la propria attività sessuale, di usare toni di scherno nei confronti degli appartenenti agli altri generi ma tutto ciò è negato alle persone di genere femminile.
Il “maschio” può, anzi per alcuni deve, esercitare il pieno possesso della pretesa proprietà della donna limitando il suo libero arbitrio e rendendola schiava e soggetto ricattato, secondo i dettami in uso all’inizio del secolo scorso e retrogrado da troppi punti di vista, vedendola come una persona dedita esclusivamente a “casa, chiesa e famiglia” il cui compito primario è ubbidire al marito e occuparsi dei figli. Gli strumenti di prevenzione disponibili, forse inadeguati alla dimensione del fenomeno, devono lasciare il passo a nuovi modelli educativi che permettano, soprattutto ma non solo, alle nuove generazione di fare propria la pratica del rispetto dell’altro sempre e comunque, al rispetto della libertà dell’altro.
È necessario che le istituzioni scolastiche, quelle religiose e quelle che rappresentano lo Stato assumano la responsabilità diretta di questa necessità senza delegarla alla buona volontà di qualche insegnante. Si propaganda spesso la volontà di “mettere a sistema”, definizione tanto moderna quanto vuota le soluzioni ai problemi ma, concretamente, si rifugge dal trasformare questa pratica in una virtù sociale, che dovrebbe riguardare non solo le donne ma anche i bambini e, più in generale tutte le fasce deboli. E allora, oggi “Forza Italia” non può essere solo l’eco lontano di uno schieramento politico o l’incitamento utilizzato dai tifosi durante i mondiali di calcio, ma dev’essere espresso nella pratica quotidiana perché “ce la dobbiamo fare”.