L’impugnazione del riconoscimento del figlio per difetto di veridicità può essere proposta dall’autore del riconoscimento entro il termine di un anno
di Giovanni Cattarino
già Consigliere della Corte costituzionale e Capo Ufficio Stampa
L’impugnazione del riconoscimento del figlio per difetto di veridicità può essere proposta dall’autore del riconoscimento entro il termine di un anno dal giorno dell’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita. Tuttavia se l’autore dimostra di aver ignorato la propria impotenza al momento del concepimento, l’azione può essere proposta entro un anno da quando l’autore ne è venuto a conoscenza. In ogni caso l’impugnazione non può essere proposta oltre cinque anni dall’annotazione del riconoscimento. È quanto prevede l’art. 263 del Codice civile.
Nulla dice l’articolo per quanto riguarda una diversa ipotesi di “non paternità”: il concepimento del nato a seguito di una relazione della madre di cui l’autore del riconoscimento (il padre “presunto”) viene a conoscenza trascorso l’anno dall’annotazione del riconoscimento. In questo caso la legge non prevede la rimessione in termini (un anno da quando è venuto a conoscenza sella sua “non paternità”) per proporre l’impugnazione.
Il giudice nel corso di un giudizio di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, rileva una violazione dell’art. 3 Cost. sotto due profili. Innanzitutto una disparità di trattamento tra l’uomo affetto da impotenza, scoperta tardivamente ma al quale è riconosciuto il potere di ristabilire la verità “biologica” impugnando il riconoscimento e l’uomo che, pur essendo stato scientificamente dimostrato non essere padre del nato da lui riconosciuto, è sprovvisto dei mezzi necessari a ristabilire tale verità. Altra disparità di trattamento si ha nei confronti del padre “coniugato”: quest’ultimo, ai sensi dell’art. 244 c.c. beneficia del termine di un anno per l’azione di disconoscimento della paternità non soltanto da quando scopre la propria impotenza ma anche da quando ha avuto conoscenza dell’adulterio della moglie.
In presenza di queste irragionevoli disparità di trattamento la Corte nella sentenza n. 133 del 2021 (consultabile sul sito www.cortecostituzionale.it) dichiara l’incostituzionalità dell’articolo 263, 2° comma, c.c. nella parte in cui non prevede che, per l’autore del riconoscimento, il termine annuale per proporre l’azione di impugnazione decorra dal giorno in cui ha avuto conoscenza della non paternità.
Non viene invece accolta la questione di legittimità costituzionale del termine quinquennale per poter proporre l’azione. Essa era stata sollevata con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo (CEDU) sulla protezione della vita privata e famigliare. Il giudice rimettente aveva invocato la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che in numerose decisioni aveva censurato le legislazioni degli Stati membri ogniqualvolta facevano decorrere un termine di decadenza per l’impugnazione dello stato di filiazione dal momento costitutivo dello stesso, anziché da quello successivo in cui il richiedente aveva maturato la consapevolezza della sua possibile non paternità. Tuttavia, rileva la Corte, nei casi giudicati dalla Corte EDU i termini per ricorrere erano notevolmente brevi ( sei mesi o un anno dall’atto costitutivo della filiazione). Diverso è il caso italiano in cui il termine quinquennale radica il legame familiare. È proprio in considerazione di tale significativo decorso di tempo che, nel bilanciamento dei valori posti a confronto, l’avvenuto consolidamento dello status filiationis deve prevalere sul favor veritatis.