La cacciata degli Ebrei dalla Sicilia del 1493, pagina infausta per la storia dell’Isola - QdS

La cacciata degli Ebrei dalla Sicilia del 1493, pagina infausta per la storia dell’Isola

Giuseppe Sciacca

La cacciata degli Ebrei dalla Sicilia del 1493, pagina infausta per la storia dell’Isola

sabato 11 Gennaio 2020

Il 12 gennaio del 1493 un intero popolo fu costretto all’esilio

PALERMO – Il 30 novembre del 1469 anche la città di Palermo, con grande sfarzo, celebrò il matrimonio tra Ferdinado d’Aragona e Isabella di Castiglia. I due cugini, in quanto discendenti diretti di Giovanni I di Castiglia, ricevettero la dispensa da parte del Papa Sisto IV per unirsi in nozze. Con lo sposalizio, si riunirono in un unico regno le prestigiose corone di Castiglia e Aragona, ponendo così le basi per quella monarchia che da lì a poco avrebbe dominato in Europa.

Al momento delle nozze la somma delle età delle due reali maestà non superava i quarant’anni nel suo complesso. Isabella si dice fosse leggiadra, bella, virtuosa, gentile e ben avviata alle lettere. Per intenderci fu la sovrana che affidò a Cristoforo Colombo le famose tre caravelle. Ferdinando veniva ricordato dai suoi contemporanei come raggiante di virile bellezza. Ma come si suole dire, nella nostra poco felice terra di Sicilia non vi è rosa senza spina.

Per Isabella, la spina era rappresenta da Tommaso Torquemada, domenicano, priore del convento della Santa Cruz a Segovia, confessore che aveva ottenuto dalla stessa, ancora adolescente, il formale giuramento che una volta salita al trono avrebbe scacciato l’eresia dai suoi regni. I primi anni del matrimonio non furono molto lieti per i regali sposi, in quanto videro il giovane re lontano dalla sua regina, intento a combattere la lotta secolare contro i Mori. Una guerra alquanto onerosa, oltre che per i sacrifici in vite umane, anche di denari. La corona usò qualsiasi sorta d’imposizione a carico dei propri sudditi per risanare e rimpinguare le ormai esauste finanze dello Stato. Gli Ebrei, nella loro qualità di servi della Camera Regia, più degli altri, come da sempre, pagarono quanto dovuto, sopportando un maggior carico di tributi, sia locali che erariali e regi, a cui si aggiungevano, non di rado, collette obbligatorie in favore di questa o quella autorità.

I balzelli e i prelievi erariali, comunque denominati, colpirono tutti i fatti della vita dei giudei. Non poteva mancare la tassa per la nascita di un figlio maschio o per i festeggiamenti in occasione di qualche lieto evento. Allargare i cordoni della borsa e pagare in silenzio fu da sempre, per gli Ebrei, l’unica via per rapportarsi ai signori del momento. Sin dalla prima dominazione araba garantirono anche la tassa per assicurarsi la libertà di religione, detta “ghezia o geisa”, da cui ha preso nome la via Gisira, esistente, ancor oggi, nel centro storico di Catania.

Il 25 novembre del 1491, dopo una resistenza decennale, capitolò Granada e la Spagna venne completamente liberata dai Musulmani, che ormai in rotta la abbandonarono. Il 2 gennaio dell’anno successivo i sovrani Ferdinando e Isabella fecero il loro ingresso trionfale nell’Alhambra, mentre sui pinnacoli ondeggiavano al vento le bandiere della vittoriosa monarchia di Castiglia. Questo momento di gloria per la affermazione militare ottenuta apparì il più opportuno per avviare un’operazione di pulizia etnica ai fini della difesa della fede, sia contro gli ultimi Mussulmani convertiti rimasti e soprattutto in danno di tutti gli Ebrei che si trovavano nei possedimenti della Corona. Ma nella mente del re e dei suoi più stretti collaboratori, serpeggiava la bramosia di inglobare agevolmente gli ingenti patrimoni di coloro che si accingeva a espellere. Si trattava più che altro di effettuare un’espropriazione di fatto e immediata di tutti i patrimoni degli espulsi che avrebbero, così, immediatamente risanato le ormai vuote e languenti casse dello Stato.

Si narra che mentre il re fosse titubante, presagendo gli effetti disastrosi che l’espulsione avrebbe comportato negli anni avvenire, in particolare a causa della perdita dei tributi ricavabili dalla popolazione ebraica residente. Forse era reso ancor più esitante da un cospicuo donativo spontaneo di trentamila ducati che tutte le giudecche dell’isola gli offrirono per indurlo a desistere dal suo insano proposito. Si narra però che all’improvviso sia comparso innanzi al sovrano Torquemada, il quale, tirato fuori da sotto il mantello un crocifisso e sollevatolo in alto, avrebbe detto: “Giuda Iscariota vendette il suo maestro per trenta monete. Vorreste voi venderlo per trentamila? Osate, pigliatelo e mercanteggiatelo ancora una volta”.

Comunque siano andate le cose, in realtà il 31 marzo del 1492 i sovrani di Spagna autorizzarono la pubblicazione dell’infausto editto che bandiva gli Ebrei da tutti i loro territori. Il 20 giugno successivo, i più importanti tra i notabili del regno di Sicilia, resisi conto della gravità del provvedimento di espulsione, manifestarono il loro disappunto firmando un’istanza indirizzata al viceré Acuna, per evidenziare l’inopportunità dell’espulsione degli Ebrei, chiarendo i pregiudizi economici che ne sarebbero scaturiti, sia per perdita di tasse da riscuotere, negli anni, sia per lo svuotamento del tessuto produttivo, con l’inevitabile tracollo di molte attività commerciali e manifatturiere, prevalentemente gestite dagli Ebrei (soprattutto in un epoca in cui la maggior parte dei sudditi era distratto dalle consuete attività lavorative per via delle continue chiamate alle armi nella lotta agli invasori Mussulmani).

Per gli Ebrei una così repentina partenza fu infausta e causa di gravissimo danno, in quanto era loro consentito portare null’altro che un limitatissimo numero di cose, quali l’abito che avevano indosso, un materasso, una coperta di lana, due lenzuola usate, tre tarì e il cibo necessario per il viaggio, anche se successivamente a questo scarno elenco venne aggiunta qualche altro genere di prima necessità. Chi rimase profittò invece della circostanza, in quanto con pochi soldi fece grandi affari. Nel giro di qualche mese case, terreni, avviate botteghe, bestiame, attrezzature, gioielli e arredi domestici, cambiarono padrone, senza menzionare che molte cospicue fortune e ingenti patrimoni finirono nelle mani dei sin troppo disinvolti nobili del luogo e del pretenzioso sovrano, grazie a espedienti e abili raggiri finanziari, cui fecero seguito contenziosi artatamente innescati, che per la loro soluzione avrebbero richiesto tempi certamente non brevi.

In Sicilia il termine per lasciare l’Isola inizialmente fissato per il 18 settembre del 1492, venne rinviato sino al 12 gennaio dell’anno successivo. Questo differimento della data di esecuzione avvenne per il concorso di almeno due importanti circostanze, determinate dagli interessi dei maggiorenti sulla scena. Infatti, la Chiesa siciliana promise agli ebrei che si fossero convertiti la liberazione della condizione di servi della Camera Regia, l’affrancamento dall’espulsione e quindi il mantenimento del patrimonio. L’autorità regia, invece, prima della partenza pretese il saldo di ogni tributo dovuto. E in ogni caso nobili e religiosi non disdegnavano di arricchirsi acquistando in abbondanza dagli espulsi.

Il paradosso raggiunse il suo apice allorché venne pure chiesto agli Ebrei di risarcire l’Erario del danno per i mancati guadagni che la loro stessa espulsione provocava. Ma anche quest’ultima imposizione venne inesorabilmente subita e prontamente soddisfatta. Secondo fonti attendibili lasciarono la Sicilia 26 mila ebrei, mentre novemila si convertirono e rimasero nelle rispettive case. Ma per questi ultimi gli anni a venire non furono sereni, giacché divennero oggetto delle truculente attenzioni dei tribunali dell’Inquisizione, sempre alla ricerca di tutti quei Giudei e Mussulmani che, malgrado si fossero fatti cristiani, permanevano nelle pratiche della loro antica fede e dunque dovevano essere mandati dritti al rogo.

Il 12 gennaio del 1493, così come previsto, un popolo di innocenti e afflitti prese, suo malgrado, la via dell’esilio. E per la partenza si raccolse un po’ in tutti i porti dell’isola e in maggior numero in quello di Palermo, per prendere la via del mare. Mentre quell’altro popolo, dei non Ebrei, che restava e aveva condiviso con questi ultimi, sino al giorno prima, le fatiche della vita – per le strade e nei vicoli delle città, spesso in rapporti d’affari o semplici compagni nel lavoro, quando, ancor più, non correvano rapporti di buon vicinato o d’amicizia – affluiva attonito e costernato, per assistere da lontano e timoroso all’esecuzione di un provvedimento avvertito da tutti come ingiusto, che puniva e cacciava gli innocenti, per una gretta e miope speculazione finanziaria, le cui uniche inaccettabili motivazioni erano la cupidigia e la superstizione. Nei porti non mancarono gli zelanti sgherri dell’erario reale, che malgrado la drammaticità del momento, non risparmiarono agli esuli odiose verifiche e inumane perquisizioni personali.

Anche Catania non fu meno rigida delle altre cittadine dell’Isola nel cacciare gli Ebrei. Il senato della città, a cui era affidata l’amministrazione della cosa pubblica e che in passato era stato sempre pigro e sonnolento, ebbe un’impennata di solerzia e si impegnò con inconsueta intraprendenza e persino entusiasmo nell’ingloriosa impresa, prima di spogliare e poi cacciare la sua cittadinanza ebraica.

Questa infausta operazione di epurazione comportò, per la corona spagnola, la perdita dei suoi pacifici e munifici contribuenti, lo spopolamento delle campagne, l’abbandono di opifici che ben presto, rimasti in disuso, finirono in rovina e nella totale desolazione. Con la scomparsa dei prestatori Ebrei, spesso ingiustamente tacciati di usura, veniva meno anche il facile accesso al credito a cui nobili e popolani avevano fatto abbondantemente ricorso. È bene ricordare, inoltre, che non furono rari i casi in cui i denari prestati appartenevano a cristiani, che in codesta maniera li mettevano a frutto, non potendo essi esercitare direttamente il prestito per l’espresso divieto delle leggi canoniche.

La grande espulsione comportò per tutta la Sicilia un grande mutamento involutivo dell’economia, ormai mutilata di alcuni suoi settori vitali. Lo squilibrio che ne derivò mutò, per lunghi anni, il tenore della vita di chi rimase, impoverendolo non poco, con grande iattura per gli appartenenti alle classi meno abbienti. Ancora una volta, la Sicilia subiva un grave danno da re stranieri e lontani, a cui il suo infausto destino di terra eternamente sottomessa aveva malauguratamente affidato il governo.

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