La vera personalità del prefetto Ponzio Pilato tra ambizione personale e paura di sbagliare - QdS

La vera personalità del prefetto Ponzio Pilato tra ambizione personale e paura di sbagliare

Giuseppe Sciacca

La vera personalità del prefetto Ponzio Pilato tra ambizione personale e paura di sbagliare

sabato 18 Aprile 2020

Una figura rimasta nella storia per la decisionedi condannare a morte Gesù

Un uomo può passare ai posteri sia per aver agito in modo coerente e apprezzabile, così come era dovuto per via del suo rango, o per la posizione in cui è stato colto dal destino in un dato momento della sua vita. Oppure, al contrario, per essere stato inadeguato rispetto a quanto da lui ci si attendeva.

Il prefetto di Roma e procuratore del suo imperatore, Ponzio Pilato, allorché nell’anno 33 processò e condannò a morte Gesù di Nazareth, agì in modo da essere relegato nella categoria di quelli venuti meno rispetto alla dignità del ruolo ricoperto.

Ciò non meraviglia particolarmente, giacché, nella storia dell’umanità, è molto lunga la lista dei nomi di coloro che hanno tradito la fiducia che in loro si riponeva. Stupisce invece che, dopo oltre duemila anni, un gruppo di magistrati e avvocati abbiano sentito la necessita di rappresentare un processo a Pilato, in cui l’illustre imputato, almeno sulle tavole del teatro, è stato chiamato a rispondere del proprio comportamento e quindi condannato per abuso d’ufficio e omicidio volontario. Invero, questa rappresentazione, avvenuta a Milano nel mese di maggio dell’anno scorso, non è stata una idea particolarmente originale, giacché vi erano stati numerosi precedenti.

Quello che l’ha resa diversa dalle altre rappresentazioni è stata la circostanza che, in questo caso, gli attori facevano sul serio in quanto operatori del diritto e con la precisa volontà e competenza di procedere secondo le regole del processo e, per quanto possibile, delle norme del diritto romano e del diritto ebraico che vigevano al tempo del processo che ha visto imputato Gesù.

Certi dell’ingiustizia della condanna e dell’irragionevolezza delle sue motivazioni, ci si continua a chiedere se oggi può avere ancora un senso interrogarsi sulla irresolutezza mostrata in occasione del processo da Pilato, la cui storia personale, per quel che risulta, è costellata di episodi di arroganza, altezzosità e di vero e proprio disprezzo per gli ebrei, di cui non comprendeva la logica e tantomeno la religione. Un credo, dal suo punto di vista, assurdamente monoteistico, per lui che era stato educato al culto del panteon degli dei romani, con le loro qualità e i tanti vizi, così assolutamente umani e quindi tanto comprensibili e a volte anche protettivi e persino patriottici.

Per la mentalità di Pilato, formatasi in ambiente militare, condizionata dal pragmatismo della politica di corte, appariva manifesto ed eccessivo il fanatismo religioso degli ebrei, la fede in questa loro unica divinità, che non aveva forma e non poteva essere neanche rappresentata: era qualcosa che oltre a restare al di là di ogni sua possibilità di comprensione, lo irritava anche perché contraria al culto della persona dell’imperatore.

Se, incuriositi, anche noi volessimo intraprendere l’impervia e contorta via di un’indagine volta almeno a capire cosa indusse quest’uomo – sempre estremamente deciso e anche, per taluni aspetti della sua personalità, rozzo e violento – a comportarsi come si comportò, in occasione del processo dovremmo cominciare certamente a rivolgere la nostra attenzione alla sua vita privata.

La moglie era Claudia Procula che, a differenza di Pilato, che proveniva da una nobiltà minore, apparteneva alla più alta nobiltà romana, era diretta nipote dell’imperatore Ottaviano Augusto in quanto la madre, Giulia, era figlia di quest’ultimo. Invero, Giulia non era donna di moralità specchiata, con i suoi tre mariti e numerose turbolente relazioni sentimentali. La sua vita personale e sentimentale si era spinta sino al punto da rendere necessario il suo allontanamento dalla corte per motivi di moralità. Il padre di Claudia era un cavaliere romano il cui nome è rimasto sconosciuto.

Il matrimonio tra Ponzio e Claudia, delle cui motivazioni affettive non vi è motivo di dubitare, fu vantaggioso per entrambi. La giovane nobile approdava a un sereno matrimonio lasciandosi definitivamente alle spalle imbarazzanti trascorsi familiari e personali, ma ancor più, per Pilato, era di grande utilità per la sua carriera.

Una particolare circostanza viene considerata, più di ogni altra, rivelatrice della grande considerazione che quest’uomo aveva per la propria moglie: infatti, per non separarsene, così come dovuto, nel corso del suo mandato in Palestina, chiese e ottenne una dispensa dall’apposita legge che gli avrebbe impedito di portarla, con sé. L’impegno di Pilato per sollecitare la propria nomina a procuratore imperiale in Giudea era stato notevole. Si avvalse non soltanto delle influenze che la moglie era in grado di esercitare negli ambienti di corte, ma anche dell’interessamento del prefetto del pretorio Lucio Elio Seiano, che in quel momento era l’ambizioso confidente e affabile amico dell’imperatore Tiberio. Seiano condusse per anni una politica antiebraica e, a sua volta, riteneva Pilato idoneo al compito di riscuotere le imposte e tenere a bada il popolo riottoso di una provincia che agli occhi dei romani era un territorio barbaro e periferico.

Dopo questa necessaria ricognizione del retroterra familiare, risulta del tutto legittimo, ancora, chiedersi per quale ragione Ponzio Pilato ambisse tanto ad andare, lontano, a governare una terra ostile e disagiata quale era la Giudea, di sovente, anzi in continuo, agitata da ribellioni antiromane e conflitti interni anche per motivi religiosi. Una terra in gran parte arida e con limitate risorse, che i romani definivano ricca solo di profeti e scorpioni. Ma evidentemente, la possibilità di questo incarico venne ritenuta, ai fini della sua carriera politico-militare, un gradino importante, se non un trampolino di lancio, su cui costruire un ambizioso cursus honorum.

Dopo aver considerato queste semplici ragioni legate alle origini, agli affetti e alla legittima ambizione a una brillante carriera, soltanto ora, infine, possiamo accedere alla ricerca delle motivazioni del comportamento tenuto da Pilato nel corso del processo e quindi delle vere ragioni per cui accettò di subire passivamente i condizionamenti e le pressioni che provenivano dal Sinedrio, non riuscendo a imporsi come era sua prerogativa ed era stato sempre suo costume nei confronti del mondo ebraico. La risposta è da ricercare, in primo luogo, nella situazione di difficoltà in cui perennemente si trovava nell’amministrare un popolo da cui non era compreso e che, come detto, non comprendeva. Un popolo con cui era comunque saggio evitare l’acutizzarsi di ogni conflitto. Questo comportamento di prudenza ebbe a dare i suoi frutti a Pilato, infatti la sua fu un’amministrazione che da Roma, malgrado tutto, venne considerata soddisfacente, come comprova il fatto che venne mantenuto nella carica per ben dieci anni, certamente un periodo non breve e di tutto rispetto, soprattutto se posto a confronto con la durata di altri mandati prefettizi.

Malgrado questo tatticismo, le incomprensioni tra Pilato e i giudei erano continue e avvenivano anche quando il prefetto imperiale avrebbe voluto agire per il meglio. Accadde, per esempio, che Pilato si fosse convinto dell’opportunità di dotare la città di Gerusalemme di un acquedotto, di cui era ancora priva. Con molto del senso pratico di cui non mancava, propose di utilizzare, per sostenere i costi della costruzione, una parte del denaro delle offerte che restava infruttuosamente accantonato nel tesoro del tempio. Questo proposito offese ancora una volta la suscettibilità degli ebrei, che non tardarono a mostrare la loro indignazione.

Il senso religioso del popolo, qualche tempo dopo, venne messo a dura prova dall’iniziativa di Pilato di esporre, nelle vicinanze del tempio due grandi medaglioni aurei, che riproducevano l’immagine dell’imperatore. Con questo solo atto, il prefetto, inconsapevolmente, colpì doppiamente la legge religiosa degli ebrei, che vietava la riproduzione di immagini e, a maggior oltraggio, ostentò in prossimità del tempio, circostanza che offendeva ancor più lo spirito religioso. Questo scarso senso di opportunità e misura ebbe a determinare la sua revoca dell’incarico, quando, nell’anno 36, Pilato provvide a reprimere nel sangue, con eccessiva brutalità, un’insurrezione scoppiata tra i samaritani sul monte Garizim. Le sollevazioni popolari indussero l’imperatore a rimuoverlo.

Nei giorni in cui venne processato Gesù vi era un clima di particolare tensione a Gerusalemme, che in occasione della Pasqua ebraica (Pesach) era traboccante di pellegrini, venuti da ogni parte della regione per adempiere ai precetti religiosi. Allo stesso tempo continuava a serpeggiare tra il popolo il malcontento per il sofferto giogo romano, sempre più attizzato dalle prediche dei tanti profeti e sobillatori. In questo quadro di tensioni si aggiungevano le predicazioni di Gesù, che avevano innescato un nuovo forte fermento nelle folle.

L’esigenza di mantenere l’ordine pubblico allertò Ponzio Pilato, che in quei giorni si era appositamente trasferito da Cesarea Marittima, dove abitualmente viveva insieme con la sua famiglia, a Gerusalemme, sede del potere romano in questa provincia tesa e instabile.

Prima di entrare nel cuore del problema forse è opportuno accennare a un ulteriore concorrente motivo che certamente ebbe a condizionare il comportamento del nostro prefetto imperiale. Era l’epoca del secondo tempio, periodo in cui i componenti del Sinedrio erano espressione di gradimento politico di Roma, che condizionava e consentiva la loro nomina. Costoro erano quindi, in qualche modo, legati alle autorità imperiali. Pilato, invece, dal punto di vista gerarchico, dipendeva direttamente dal governatore provinciale e capo militare della vicina Siria, diretto rappresentante dell’imperatore, comandante delle legioni che presso di lui stanziavano, a cui le malevole doglianze dei componenti del Sinedrio potevano agevolmente giungere. L’imputato Gesù di Nazareth era scomodo e difficile da difendere, perché aveva il torto di aver sfidato apertamente le due contrapposte autorità, o per lo meno così poteva apparire. Le sue predicazioni dei giorni precedenti all’arresto, scossero le folle ed erano certamente contrarie agli interessi del Sinedrio, di cui minavano il potere. Erano anche dissonanti rispetto all’ordine costituito imposto dagli occupanti romani. Quindi, qualsiasi atto di clemenza o ancor peggio di debolezza nei confronti dell’imputato non sarebbe passato inosservato agli occhi di chi stava a scrutare, con attenzione, il comportamento di Pilato.

L’accusa inizialmente formulata dal Sinedrio era di blasfemia, quindi di bestemmia, un reato di natura religiosa che sarebbe rientrato nella ormai limitata competenza di quest’organo politico-giudiziario, ma che non avrebbe potuto mai comportare la pena di morte. Il Sinedrio, infatti, non poteva più infliggere la pena capitale, giacché Roma, che ne aveva ridotto i poteri, confezionò pertanto un’imputazione che doveva comportare la pena di morte per l’imputato. Era questo, e solo questo, quanto voluto.

Allorché l’imputato Gesù fu portato al cospetto di Pilato, il prefetto si convinse subito che si trattava di una bega interna tra giudei, una di quelle questioni che non comprendeva e per le quali provava pure avversione, così come la si prova per le cose insulse che fanno perdere tempo e qualche volta anche la pazienza. Ma ben presto comprese che anche se questa era la verità reale dei fatti, vi era un’altra verità, quella processuale, che lo vedeva chiamato a giudicare l’attività pubblica di Gesù e quindi spostava il tema della decisione sul contenuto delle predicazioni le cui parole ben si prestavano a costituire l’apparente ipotesi di un delitto politico.

Pilato, la sua posizione di potere, il suo autorevolissimo rappresentato imperiale, furono così tutti tirati in ballo, con la conseguenza voluta dal Sinedrio che l’accusa si tramutò in attentato all’imperatore e alto tradimento, cui conseguiva la competenza del prefetto romano e anche la pena di morte. Certamente anche Pilato comprese l’artefatto, ma non poté sottovalutare il potere di condizionamento della folla che l’autorità del tempio poteva esercitare e, quindi, in una città traboccante di pellegrini, non volle rischiare di perdere il controllo della situazione e tentò di evitare il sempre temuto incidente di percorso capace di risultare fatale per la sua carriera. Dal che, la semplice e agevole conclusione della necessità di una pronuncia di condanna alla pena di morte.

Con attendibile certezza può affermarsi che il dramma si consumò senza le suggestive figurazioni dei protagonisti riportate dai Vangeli. In effetti, gli storici negano che fosse in uso, in occasione della Pasqua, liberare un qualche prigioniero, né del resto è immaginabile l’arrogante Pilato che dialoghi con la tanto disprezzata folla per offrire un’alternativa tra due prigionieri da liberare. Egualmente inverosimile appare la pretesa di attribuire a Pilato il gesto autoassolutorio di lavarsi le mani, che invece era specificamente previsto nella tradizione ebraica. Il Prefetto non dovette cercare alcuna assoluzione presso questi suoi sottoposti, che considerava solo dei primitivi fanatici da passare, all’occasione, a filo di spada.

Comunque siano andati i fatti del processo, Pilato emise la condanna e un innocente subì la infamante morte da croce. Per quanto il nostro sguardo voglia, ora, posarsi benevolmente su Ponzio Pilato, non può apparirci che un giudice mediocre e un uomo egocentrico e debole, il quale comunque non poté evitare che solo dopo qualche anno avvenisse il tanto temuto incidente, fosse rimosso dalla carica e quindi trasferito in modo punitivo in Gallia. Non è certo che si sia dato la morte di sua volontà, ma è certo che non avvertì nel corso della sua vita il peso del suo delitto.

Il modo di vivere e di intendere di Pilato viene reso con singolare verosimiglianza dallo scrittore Anatole France, nel racconto “Il procuratore della Giudea”, nel quale viene descritto un colloquio dello stesso Pilato, che ormai avanti negli anni rievoca con un commilitone i suoi lontani trascorsi nella Giudea, ricordando i contrasti e il fanatismo degli ebrei, le insormontabili difficoltà nell’amministrarli, gli apprezzamenti e le ancor più frequenti incomprensioni dei suoi superiori e infine la ingiusta rimozione subita. Ma nella sua memoria non vi è traccia della condanna inflitta a un eversore di nome Gesù, che, però, a sua insaputa, lo continua, da secoli, a trascinare nella storia, inchiodato irrimediabilmente alle sue responsabilità di uomo e di giudice.

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