Percorsi di recupero psicologico solo dopo la condanna? Troppo tardi. Ecco perché il nuovo di segno di legge approvato dal Consiglio dei ministri è monco.
L'inasprimento delle pene da solo non basta. Sbagliato e pericoloso porre in secondo piano i processi educativi e di recupero dei soggetti violenti
“La Voce delle donne” giunge alla terza puntata. Entra dunque nel vivo il nuovo e ambizioso progetto lanciato dal QdS e dedicato interamente a tutte quelle donne che subiscono abusi ma che non hanno il coraggio di denunciare. Sono loro che vogliamo prendere per mano e accompagnare in un percorso verso la coscienza e verso la consapevolezza che non è mai troppo tardi per opporsi, per dire basta.
Anche il mese di dicembre si è macchiato di sangue. Si è macchiato del sangue di Giovanna Cantarero, detta Jenny, ammazzata per strada in una strada della periferia tra Misterbianco e Catania dall’ex compagno che non accettava la fine della loro relazione. Un copione che si ripete, nostro malgrado, senza soluzione di continuità.
Ecco perché dedicheremo questa terza puntata ad una riflessione sul nuovo disegno di legge di contrasto alla violenza di genere approvato dal Consiglio dei ministri qualche settimana fa.
Pene più aspre, maggiori misure di controllo e sorveglianza e aiuti economici alle donne vittime di violenze e abusi. È questo il cuore del testo normativo che è stato presentato a inizio dicembre in un clima di grande entusiasmo e soddisfazione e che si pone come principale obiettivo il potenziamento degli strumenti di protezione a sostegno delle vittime, come il ricorso a braccialetti elettronici sia in caso di arresto domiciliare che in caso di divieto di avvicinamento o l’obbligo di allontanamento dalla casa familiare e misure cautelari più severe per chi ne rifiutasse l’applicazione, la possibilità di applicare misure di prevenzione più gravi previste dal codice antimafia, come la sorveglianza speciale e l’obbligo e il divieto di soggiorno, anche ad altri reati contemplati del Codice rosso, e cioè tentato omicidio, violenza sessuale e deformazioni permanenti al volto, l’arresto obbligatorio in flagranza per chi viola il divieto di avvicinamento alla vittima e maggiori misure cautelari coercitive per tutti casi di lesioni quando ricorrono le aggravanti previste dal Codice rosso, la possibilità di procedere anche senza la denuncia se il responsabile ha violato l’ammonimento del Questore reiterando la sua condotta, operazioni di vigilanza e sorveglianza da parte delle forze dell’ordine, nei casi di pericolo concreto, a favore delle donne che hanno denunciato e l’obbligo di avvisare il Questore, il Prefetto e la vittima della scarcerazione del condannato o indagato.
Solo l’articolo 8 del Ddl fa riferimento esplicito a percorsi di recupero per i condannati, ma solo dopo la sentenza di condanna. Sarà infatti il giudice, avvalendosi degli uffici di esecuzione penale esterna, a individuare le associazioni e gli enti all’interno dei quali il soggetto potrà seguire il percorso riabilitativo e di assistenza psicologica. La norma di fatto non individua nessuna istituzione pubblica che possa aiutare il giudice nella scelta della struttura e del percorso specifico, ma subordina all’ufficio di esecuzione penale esterna la verifica dell’effettiva partecipazione al programma scelto. Questo, dunque, rimane l’unico articolo del testo di legge in cui il condannato viene descritto come un soggetto da riabilitare e non solo come un soggetto pericoloso da allontanare e rinchiudere sine die.
La cronaca ci ha insegnato, a spese di numerose vite, che chi ha intenzione di uccidere non ha interesse a rispettare gli ammonimenti previsti dalla legge. Per chi è ossessionato dal pensiero di annientare l’altra, e poi magari annientare sé stesso, non c’è braccialetto elettronico, ordinanza restrittiva o arresti domiciliari che tengano, così come il carcere, inteso solo come una cella chiusa a chiave, non è garanzia di riabilitazione. Sembra quindi riduttivo, e spesso anche surreale, parlare unicamente dell’inasprimento delle pene e delle misure cautelari ogni volta che si tenta di affrontare il problema della violenza sulle donne, ponendo in secondo piano i processi educativi e di recupero dei soggetti violenti.
Non è solo sul “dopo” che dobbiamo lavorare, nella speranza che denunce e strumenti coercitivi si rivelino totalmente inutili, come spesso è capitato, ma anche e soprattutto sul prima, avviando percorsi educativi che partano dai bambini. Se esiste un modo per combattere e ridurre la violenza sulle donne, quel modo non può non contemplare l’educazione e la formazione di nuovo maschio. Le pene e gli strumenti coercitivi possono tutt’al più alleviare i sintomi, ma da soli non possono curare la malattia. È tempo che la politica agisca in questa direzione.
di Valeria Arena, Maria Teresa Cultrera e Laura Monteleone
Fine III puntata
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