Le gabbie salariali - QdS

Le gabbie salariali

Antonino Lo Re

Le gabbie salariali

Giovanni Pizzo  |
giovedì 07 Dicembre 2023

Chiamandole così la stampa, sobillata da parti interessate, ha già definito la materia con connotazione negativa di un impianto salariale

Chiamandole così la stampa, sobillata da parti interessate, ha già definito la materia con connotazione negativa di un impianto salariale. Gabbie salariali sa di schiavitù, sfruttamento, prigionia. Ma andiamo al nocciolo del problema. Sono risaltare fuori perché la Lega ha presentato in finanziaria un emendamento che riserva un aumento di stipendio agli insegnanti del Nord Italia. Subito una bufera su razzismo, autonomia differenziata e nordismo egoista.

A parte che gli insegnanti dovrebbero avere stipendi a livello europeo e non da fame, avere un ruolo riconosciuto, e non alla mercé del ministro o genitore di turno, che pensa di essere un influencer perché ha fatto un gruppo WhatsApp. Però è vero che con lo stipendio un insegnante al Nord, dove il costo della vita è più alto, ci paga a mala pena affitto e bollette, ed è un nuovo povero, se non abita in famiglia o non sta con qualcuno con cui dividere le spese. Secondo me ci sono fidanzamenti forzati tra insegnanti, in cui il sentimento è secondario rispetto al canone d’affitto. Peraltro buona parte di questi insegnanti del Nord sono del Sud, perché solo lì trovano cattedre dove prendere servizio. E così la questione assume la forma classica della guerra tra poveri, in cui il sindacato assurge a difensore estremo, chiediamoci perché, della contrattazione nazionale. Ora che il costo della vita, le opportunità di servizi, il benessere complessivo, sia totalmente diverso nel Paese è un dato più lapalissiano che certo. E questo ovviamente riguarda anche i lavoratori privati rispetto a quelli pubblici. Si mantiene una contrattazione nazionale e poi si accetta la montagna di lavoro precario o lavoro nero. Ipocrisia al cubo.

Cosa si dovrebbe fare? Abbiamo istituzioni di statistica, Svimez, CNEL, ed altri soggetti, lautamente finanziati dallo Stato. Non si riesce a stabilire quale è il costo della vita tra le varie aree del Paese? E in conseguenza abbandonare lo strumento obsoleto della contrattazione nazionale, e portarla al più appropriato contratto d’area? L’Italia potrebbe con serenità essere divisa, per il mercato del lavoro, in tante aree quanto sono le circoscrizioni europee, che sono 5, come le vecchie macroregioni individuate dalla Fondazione Agnelli, e su quella base regolamentare i salari. Il costo del lavoro probabilmente più basso al Sud faciliterebbe la industrializzazione e la competitività di quel territorio, emergerebbe il lavoro nero, e si potrebbero ripensare le delocalizzazioni. Peraltro il Nord non può più crescere sul piano industriale, a meno di non costruire fabbrichette sopra altre fabbrichette. Lo smog, il paesaggio, la qualità della vita scenderebbe ulteriormente. L’unica cosa che invece può fare crescere il Sud, ed il Paese sul piano della competitività complessiva, è proprio un costo del lavoro più basso, una misura strutturale, magari temporizzata, rispetto ad incentivi una tantum a pioggia.

Poi c’è l’altro grande tema del lavoro su cui Landini e soci non scendono mai in piazza. La settimana lavorativa, in Italia è troppo lunga, ma il lavorare meno lavorate tutti non piace al sindacato italiano. Perché le nuove generazioni solitamente non si iscrivono e la base sindacale scenderebbe. Meglio lavorare pochi e vecchi, però iscritti.

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