Le persone migliori sono quelle che devi supplicare per far sì che accettino l’incarico che offri loro; non quelle che si propongono o lo questuano. Lo diceva l’imprenditore siciliano, Mimì La Cavera (1915-2011).
Da quell’epoca le cose sono molto peggiorate, perché il numero dei questuanti è diventato enorme. In altre parole, si è diffusa la mercificazione delle attività pubbliche e parapubbliche. Dobbiamo dire, per la verità, che nel settore privato il fenomeno indicato è fortemente ridotto, perché dietro a ogni impresa c’è un padrone inesorabile: il bilancio di esercizio.
Ciò non toglie che qualche imprenditore si comporti da farabutto o da incapace e tradisca il compito nobile che ha, che è quello di produrre ricchezza necessaria a pagare imposte, tasse e contributi previdenziali e che è altresì necessario per fare crescere la ricchezza del Paese e l’occupazione.
Il compito dell’imprenditore è di interesse pubblico, non dovrebbe mai essere dimenticato.
Nel settore pubblico, come si scriveva, la regola è quella della raccomandazione. Ma perché essa si è diffusa ed è presente in tutte le attività, da quelle statali alle regionali, provinciali, comunali, alle partecipate di tutti i livelli, alle fondazioni pubbliche? Perché all’interno di tali strutture non esiste il valore del merito, che si misura con i risultati.
In un mondo ideale, chi ottiene migliori e maggiori risultati – perché ha più merito – dovrebbe essere remunerato in rapporto e, invece, chi non ottiene risultati o ne ottiene solo di scadenti, non deve ricevere nulla, ma semmai essere sanzionato.
La regoletta è semplice e di facile comprensione, ma di difficile attuazione perché chi ha responsabilità di conduzione della Cosa pubblica – ci riferiamo ai responsabili istituzionali e a quelli burocratici – non importa nulla di raggiungere i risultati perché essi sono irrilevanti ai fini della loro carriera, della loro retribuzione e dei loro premi.
Proprio in questi giorni si discute l’abrogazione di una legge che limitava il compenso dei dirigenti pubblici a duecentoquarantamila euro l’anno. Cosicché, se approvata, tale limite verrà ampiamente sforato, a prescindere dai risultati.
Nell’ambito della questione appena descritta si verifica un’altra disfunzione e cioè che i più bravi e meritevoli non intendono essere inseriti in strutture pubbliche, proprio perché in quell’ambito non sarebbero valutate le loro capacità e quindi l’eventuale merito.
Ma c’è un’altra ragione per cui i bravi e le brave non vogliono andare nel settore pubblico e cioè che la mancanza di meritocrazia in tutto il personale non consente di averne una conduzione ordinata ed efficace, appunto, mirante ai risultati.
Ora, una squadra di calcio non può vincere una partita se gli undici giocatori non agiscono come se fossero uno solo. Ciò si verifica se l’allenatore o l’allenatrice è persona capace, di ampia esperienza, che conosce la psicologia dei giocatori ed è capace anche di “estrarre il succo dalle pietre”. Vi sono squadre milionarie che non conseguono i risultati e squadre con giocatori più modesti, ma ben condotti e con grande volontà, che ottengono risultati straordinari.
Tutto questo gira intorno a quell’unica parola magica più volte ripetuta: merito.
Perché all’interno del settore pubblico tale parola è sconosciuta? Perché vige il suo contrario: il favoritismo, la raccomandazione, il familismo e tante altre prerogative che si tramandano dal dopoguerra a oggi.
Volendo ulteriormente approfondire la domanda, si arriva alla conclusione che l’armata di 3,2 milioni di persone non funziona perché non è organizzata, non è disciplinata, non ha i binari di attività tassative, programmate e calendarizzate, cioè manca in tutte le attività il cronoprogramma che fissi gli obiettivi e ne accerti la realizzazione nei tempi previsti.
Non è un nostro pallino quello che scriviamo da mezzo secolo, ma è la costatazione che il nostro Paese non cresce: quest’anno forse più 0,3% di Pil contro il più 5% della Cina e il più 3% degli Usa. Quindi, un Pil piatto da decine di anni, perché la classe istituzionale funziona sulla base del favoritismo e non del merito.

