La meritocrazia esalta i bravi - QdS

La meritocrazia esalta i bravi

Carlo Alberto Tregua

La meritocrazia esalta i bravi

giovedì 08 Luglio 2021

In Italia nessuno la conosce

Ritorniamo sulla meritocrazia, un tasto dolente che affossa il nostro Paese, nel quale la frazione debito-Pil continua a peggiorare, anno dopo anno, indipendentemente dalla disgraziata parentesi del Covid-19.
Ora, nei Paesi seri, il denominatore di tale frazione aumenta costantemente anno dopo anno di qualche punto percentuale per arrivare al massimo di quello cinese che oscilla fra il sette ed il nove per cento.

Ovviamente, aumentando il denominatore (Pil), il rapporto col debito (se si ferma) migliora e scende, con la conseguenza che il Paese ha più risorse destinate al suo sviluppo, alla sua crescita, ad una maggiore occupazione, all’aumento del tasso infrastrutturale, al miglioramento delle proprie università e via elencando.

Affinché questo processo positivo avvenga, occorre che in tutti i settori, pubblici e privati, vi sia un adeguato tasso di meritocrazia, vale a dire che ai più bravi bisogna dare incarichi importanti e riconoscimenti anche materiali, in base agli obiettivi che si raggiungono, misurati dai risultati.

Le nostre università, secondo le classifiche mondiali, sono molto indietro rispetto alle prime del mondo fra cui il Massachusetts Institute of Technology (MIT), Harvard ed altre. La prima università italiana in questa particolare classifica è il Politecnico di Milano al 142° posto su 1.300.
Perché le nostre università sono così indietro? La risposta è elementare. Nelle stesse non viene costantemente valorizzato il merito degli allievi, mentre vi è una sorta di appiattimento al basso per fare numeri.
Fra l’altro, nel nostro Paese i laureati sono relativamente pochi rispetto alla media europea, mentre è stato dimostrato che proprio i laureati riescono a trovare occupazione prima e ad avere retribuzioni più alte.

I fondi distribuiti dallo Stato alle 67 università pubbliche non sono proporzionati alla qualità dei laureati, ma con metodo quantitativo, cioè in base al numero degli studenti.
Perché puntiamo i fari sulla formazione più elevata? Perché è proprio da lì che esce la classe dirigente politica, imprenditoriale, professionale e di altri settori, che poi guiderà il Paese. Se non è di qualità, il Paese non cresce.

C’è meritocrazia nelle imprese? In qualche misura, c’è. Ma semplicemente in qualche misura perché nelle grandi aziende, spesso, gli incarichi vengono attribuiti per appartenenza e non per merito. Migliora però nelle medie aziende, dove vi è un rapporto più diretto fra la dirigenza e i dipendenti. Ancor di più vi è meritocrazia nelle piccole imprese perché solo attraverso la qualità e l’efficienza dell’organizzazione, possono autofinanziarsi con i redditi e quindi crescere.

La questione che poniamo è al vertice di tutte le altre che prevedono un miglioramento dello stato socio-economico del Paese. Non possiamo che essere in disaccordo con i sindacati che, anziché regolarsi in base alla meritocrazia, difendono tutti e mettono tutti sullo stesso piano. Poi, il nostro disaccordo (per quello che vale) è totale nei confronti di quei poveretti che sostengono che “Uno vale uno”. Vorrei vedere se un qualunque velocista riuscisse a battere un Mennea o un Bolt. La natura e l’impegno selezionano con chiarezza i migliori.

Un discorso completamente diverso è nella Pubblica amministrazione italiana a tutti i livelli (nazionale, regionale e locale), ove i meritevoli (che ci sono) costituiscono una parte minoritaria dei circa quattro milioni di cittadini impiegati anche nelle partecipate pubbliche.

Una volta, dirigenti e dipendenti entravano per concorso, come tassativamente previsto dall’articolo 97 della Costituzione. Ormai il concorso è diventato accessorio, con la conseguenza che vengono immesse persone senza qualifiche né qualità, le quali, quando arrivano nei loro posti di lavoro, ovviamente non sono in condizioni di fare il lavoro esistente e dunque non combinano nulla di buono.

Non parliamo della classe politica, ove qualunque cittadino, anche un barbone, purché non pregiudicato, può candidarsi a qualunque carica dello Stato (nazionale, regionale, locale). Questo è deleterio perché nessun candidato, senatore o deputato, dovrebbe essere un candidato se non disponesse di un curriculum di prim’ordine e di esperienze già fatte.
Ma entrambi nel nostro Paese sono un optional.

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