Piero Melati, cronista del primo Maxiprocesso: “Quell’omicidio fu un intervento pesante e diretto, nei confronti della stampa, del giornalismo palermitano e siciliano”
LEGGI L’ARTICOLO DALL’INIZIO. «Mario Francese era figlio di un periodo storico in cui non si lavorava sulle carte giudiziarie, o perlomeno ci si lavorava solo parzialmente, come poi è successo dopo di lui, perché a quel tempo si andava “in strada” a cercare le notizie, anche le più scabrose. Mario Francese era famoso perché conosceva luoghi della città a tutti gli altri sconosciuti e aveva confidenza con persone con cui non parlava nessuno. Da lì attingeva quantomeno le voci, se non le notizie, che poi andava a verificare in tribunale con i pubblici ministeri.
Come esperienza personale, Mario Francese era molto amico di mio zio Lillo perché sua moglie era, come mio zio, di Campofiorito. Lo conobbi, quindi, prima del mio periodo giornalistico, quando, in un ambito più familiare andavamo a fare gite in campagna che prevedevano grandi pranzi nelle baite vicino al paese. Campofiorito, per chi non lo sapesse, è a due passi da Corleone. In quel luogo, in cui andava sempre ogni estate, ha percepito la scalata di Riina e il fatto che fosse diventato più importante di Leggio, anni prima che tutti noi lo capissimo, investigatori compresi. In quel luogo, Mario Francese conosceva tutti e le voci giravano, a riprova che era uno che “stava in strada” con gli occhi e, soprattutto, le orecchie aperte.

I suoi figli, che al tempo erano piccoli, avevano molta confidenza con tutta la mia famiglia. È il racconto di alcuni di loro che mi ha fatto comprendere meglio la sua figura. Capitava talvolta che qualcuno, perché s’incontravano per strada, lo accompagnasse quando lui doveva “andare a caccia di qualcosa”. Era sconvolgente come conoscesse angoli e zone di Palermo, sconosciuti anche a persone che la città la conoscevano bene, cui, non si capiva come, riuscisse ad accedere e come fosse alta la sua credibilità in quei luoghi perché le persone parlavano e si confidavano con lui. La stessa cosa succedeva in Tribunale, nella sua veste ufficiale di cronista di giudiziaria. Lui stava sempre vicino al banco del pubblico ministero e qualcuno, al processo per la sua morte, disse che suggerisse ai pubblici accusatori. Non ritengo che fosse così ma, senza dubbio, aveva una visione estremamente completa, a volte anche superiore a quella del pubblico ministero su quanto si stesse dibattendo grazie alla sua grande capacità di analisi e, altra sua grande capacità, quella di riuscire a verificare quanto trovava “in strada” con quanto gli aspetti dell’indagine e quella processuale dimostravano. È un modo di fare il giornalista che, dopo di lui, si è perduto perché, alla fine, ci siamo basati, anche eccessivamente, sulle carte giudiziarie.
A differenza di De Mauro, che era scomparso nel nulla, l’omicidio di Francese ha suscitato una reazione diversa. C’è una certa differenza tra far scomparire nel nulla un giornalista e non sapere che fine avesse fatto e, come accaduto nel 1979, decidere di far trovare il suo cadavere in una strada sotto casa sua e farlo vedere a tutti, dare a tutti il segnale che qualcosa era cambiato e non solo il nemico della mafia si annidava nelle forze di Polizia o in pezzi della magistratura ma che anche raccontare queste cose era diventato impossibile pena la morte. Ritengo che sia stata una delle prime volte in cui la mafia abbia celebrato un rito pubblico, quello dell’omicidio, per far capire a tutti di “stare attenti” e questo fa cambiare gli equilibri.
C’è una generazione di giornalisti che aveva iniziato a lavorare per “L’Ora” e poi andarono al “Giornale di Sicilia”, anche per lavorare per una testata economicamente più sicura. Da quel momento ci fu un veto e, anni dopo, si sarebbe saputo che questo era stato un veto personale di Totò Riina, ossia quello di evitare di assumere i giornalisti de “L’Ora” al “Giornale di Sicilia”. Quell’omicidio fu un intervento pesante e diretto, nei confronti della stampa, del giornalismo palermitano e siciliano. Fu uno spartiacque, l’omicidio di Francese, tra i “paciosi” anni ’70 che avevano sì visto la scomparsa di De Mauro, l’uccisione di Scaglione e nel ’77 quello del colonnello Russo nel bosco della Ficuzza ma, al di là di questi episodi, erano stati anni di grande pace. Con l’omicidio di Mario Francese si aprono gli anni ’80, gli anni della guerra di mafia, gli anni degli omicidi eccellenti. Anni ’80 che cominciano con due elementi che da allora ossessionano. Il primo è che quelli che hanno visto quell’immagine, subito dopo che Bagarella sparò, dissero che “sembrava un cappotto lasciato a terra” perché dopo l’omicidio si creò il vuoto in quella piazzetta e, visto da lontano, il corpo di Francese sembrava, appunto, un cappotto abbandonato. L’altra cosa, strana, è che ci furono dei testimoni che dettero la descrizione del killer, segno che ancora in quell’epoca a Palermo c’erano pezzi della città che non erano omertosi ma che andavano a dare testimonianza, che non si sono ritratti e hanno descritto Bagarella. Da quel momento in poi, però, l’omertà comincia a diventare un fenomeno più pesante per la paura di essere coinvolti, di essere uccisi. Ritengo che l’omicidio pubblico per la mafia sia sempre stato una sorta di rituale per dire a tutti di stare attenti a non superare una certa soglia e non soltanto un’esecuzione dettata da motivi pratici. La tecnica era sicuramente dettata da motivi pratici ma c’era quest’altro valore altamente simbolico che la mafia si giocò in un territorio che doveva essere governato solo da loro e che fu governato solo da loro fino all’avvento con del pool antimafia.
Mario Francese univa i puntini per avere il quadro, il contesto della situazione. Francese aveva nel cassetto un’inchiesta, che fu pubblicata solo successivamente alla sua morte, in cui per la prima volta si faceva il nome di Totò Riina e si evidenziava l’arrivo dei Corleonesi. Questo era un taglio giornalistico che fece di lui uno dei primi giornalisti d’inchiesta. Francese metteva insieme i pezzi e ne traeva inchieste, non singoli articoli. Dalla sua analisi emergeva che c’era una novità, ossia quella di “un nuovo sceriffo in città”, un narcisistico dittatore molto carismatico che cominciava a dettare legge». IL RICORDO DI FRANCO NICASTRO, EX PRESIDENTE ODG SICILIA. CONTINUA LA LETTURA

