Mario Francese, a 43 anni dall’omicidio il ricordo di quattro colleghi giornalisti

Mario Francese, a 43 anni dall’omicidio il ricordo di quattro colleghi giornalisti
Mario Francese raccoglie una testimonianza

Era il 26 gennaio 1979 quando Mario Francese arrivò sotto casa, all’altezza del civico 15 di viale Campania a Palermo, quando un killer, Leoluca Bagarella, gli sparò con una calibro 38 alle spalle

Daniele Billitteri, : “Sicuramente un maestro oltre che un grande giornalista”

LEGGI L’ARTICOLO DALL’INIZIO. – «Mario Francese era un signor cronista. Lo era in maniera istintiva perché era uno di quelli convinti che l’informazione fosse fatta di notizie, e lui cercava notizie. Aveva il gusto e la capacità di trovarle e, soprattutto, di riconoscerle. Francese era una persona che non aveva “la puzza sotto il naso”, era uno di quelli che riusciva anche nelle piccole cose a leggere disegni più grandi. Sicuramente un maestro oltre che un grande giornalista.

Nessuno di noi, noi che facciamo questo mestiere, si salva dal pregiudizio e anche lui non ne era esente, ma perché? Perché lui arrivava a occuparsi dei processi dopo che la vicenda l’aveva seguita in tutte le fasi precedenti e quindi non era strano che in aula, durante il processo, lui ne sapesse di più del pubblico ministero al punto che si diceva che “suggerisse” ai pm stessi. Quando morì si ritenne anche che questo suo modo di fare fosse una possibile concausa del suo omicidio, perché in un processo di mafia questo suo atteggiamento dava sicuramente fastidio all’imputato. Mario Francese era un giornalista stimato da tutti, compresi gli avvocati. Non solo quelli di parte civile ma anche da quelli che, in quel momento, stavano difendendo mafiosi. Gli erano riconosciute autorevolezza e competenza anche perché non ha mai nascosto da quale parte stesse, ossia quella della giustizia. Oggi, come allora, lo stare dalla parte della giustizia è spesso equivocato come se questo non ti permettesse di essere super partes e, in quel periodo storico, c’era una “guerra” nei confronti del sistema mafioso e, come si suole dire in questi casi, se sei amico dei miei nemici allora diventi un mio nemico.

Mario Francese aveva un atteggiamento quasi letterario nei confronti del “caso” che era non tanto un enigma da risolvere, ma una scacchiera in cui ogni pezzo doveva avere la sua giusta collocazione, un album di figurine dove non manca quella del campione di turno ma in cui tutto deve essere ordinato nel suo contesto e deve avere una sua logica. Questo, anche se sacrosanto, spesso è in contrasto con l’esercizio della verità. L’errore più grande che può fare un cronista è pensare che esista una sola verità ma non è così, perché esistono molte verità che sono legate allo svolgersi del tempo che serve, appunto, per verificarla. Un grande errore, nel nostro mestiere, è fossilizzarsi su ipotesi iniziali perché questo fa sfuggire al proprio sguardo l’evolversi degli eventi e il raggiungimento di una nuova verità.

Mario Francese ha fatto sempre, in ogni momento della sua vita, il suo mestiere e non è giusto dire che ha cercato l’odio da parte di Cosa Nostra con il suo operato. Ha fatto semplicemente il lavoro che aveva scelto di fare. Era un uomo giusto, onesto, saggio, intelligente e un fior fiore di cronista. Era uno, per così dire, all’antica e chi, al tempo, lo definì un cronista di provincia, cui piaceva avere ragione e che utilizzasse i fatti per confermare le sue ipotesi, sbagliava. Mario Francese fu il primo a capire, scavando negli intrighi della costruzione della diga Garcia, l’evoluzione strategica e i nuovi interessi della mafia corleonese.

Quel 26 gennaio ero al giornale. In quel periodo mi occupavo di giudiziaria per “L’Ora” sotto la guida di Alberto Stabile. Sarei poi passato al “Giornale di Sicilia” alla fine di quel terribile 1979. Appresi la notizia ascoltando la radio che era sintonizzata sulle frequenze della Polizia. Andai in viale Campania assieme a Ciccio La Licata, che in quel periodo lavorava per “Il Diario”, testata nella quale lavorava anche Giulio, il figlio di Mario. Fu Boris Giuliano che lo prese da parte per dirgli che quella nonera un’ammazzatina qualunque ma che quel corpo a terra era quello di suo padre». IL RICORDO DI SERGIO RAIMONDI. CONTINUA LA LETTURA

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