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Morire di speranza

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Morire di speranza

giovedì 11 Agosto 2022

Erano le prime luci del mattino del 10 agosto 2013 quando un barcone in fuga dall’Egitto si incagliò sul litorale Playa di Catania

di Emiliano Abramo
Presidente Comunità di Sant’Egidio

Erano le prime luci del mattino del 10 agosto 2013 quando un barcone in fuga dall’Egitto si incagliò sul litorale Playa di Catania a pochi metri dalla riva ovvero dalla salvezza. Erano circa cento i migranti presenti sull’imbarcazione, si gettarono in mare nella disperata ricerca di raggiungere la spiaggia ma sei di loro, appesantiti dai vestiti e provati dalla stanchezza, annegarono. I loro giovani cadaveri furono spinti in spiaggia dagli altri compagni di viaggio. Questa è in breve la storia del primo sbarco avvenuto a Catania in tempo recente, uno sbarco che ebbe un forte impatto mediatico perché in quel tempo erano solo le isole o i piccoli centri, come Lampedusa o Pozzallo, ad essere interessate dagli sbarchi. Questa volta era una città e le attenzioni della stampa non si fecero attendere a lungo.

Il primo soccorritore fu Dario Monteforte, titolare di un lido di quel litorale, che immediatamente segnalò il fatto alle autorità. Ricordo bene quella giornata di agosto, venni raggiunto di mattina presto dalla telefonata di Marco Consoli, vicesindaco della città in quegli anni, e dalla Prefettura. Catania era distratta dalle vacanze estive ma soprattutto non era preparata: niente esperienza pregressa, strutture di accoglienza o beni da consegnare. I superstiti, circa cento, vennero tutti accompagnati al porto cittadino e noi di Sant’Egidio andammo con un gruppo di giovani studenti ad accogliere e ad intrattenere conversazione con i pochi che parlavano inglese. Lanciammo un appello per reperire il pranzo in tempi rapidi ma anche beni di prima necessità da consegnare alle persone appena arrivate che trovammo chiaramente stanche e spaventate.

Ecco l’inizio della storia di amicizia tra Catania e i migranti, ecco il primo abbraccio tra gente di due sponde diverse dello stesso mare, il Mediterraneo, dal quale continuiamo a raccogliere ogni frammento di vita. In quegli anni Catania e la Sicilia vennero raggiunte da tante barche, barconi e navi impegnate nel salvare vite in mare. I mezzi erano pochi e se oggi lamentiamo l’assenza di attenzione da parte di Bruxelles nove anni fa neanche il governo nazionale si interessava alla Sicilia che aveva scelto per l’accoglienza, ma questo non fu un impedimento insormontabile. Ricordo le riunioni con il sindaco Enzo Bianco, i dirigenti prefettizi ed il procuratore Giovanni Salvi, ricordo la presenza intelligente di mons. Gaetano Zito e dell’imam Kheit Abdelafid così come l’impegno di tante associazioni: era una ricetta in salsa siciliana che ha permesso di moltiplicare pani e pesci, di resistere oltre le difficoltà, di accompagnare e servire quelli che Marco Impagliazzo, Presidente della Comunità di Sant’Egidio, chiamava “nuovi europei”.

Per questo motivo bisogna fare memoria, per affondare le mani in questo mare che ha inghiottito la vita degli uomini e continuare a sentirne il dolore, per ritrovare le radici della solidarietà e dell’accoglienza, per riconoscere – come disse Bergoglio – che il vero protagonista è l’abbraccio tra chi accoglie e chi è accolto, per accarezzare l’anima di questa città che ancora vuole gridare, piangere ma anche consolare e incoraggiare. Abbiamo accolto, pregato, gioito e lavorato in Sicilia, siamo attrezzati per resistere anche alle nuove tempeste sollevate dal vento dell’indifferenza e del populismo che sembra ripresentarsi in questi ultimi tempi. La Sicilia è terra di accoglienza e di umanità, dove nessuno dovrà più morire di speranza.

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