Se la lotta agli incendi viene eseguita con le armi spuntate, la ricerca delle motivazioni dietro questi eventi estremi è all’anno zero. Secondo il recente rapporto del Wwf, che riprende dati del corpo forestale della Regione, dietro la maggior parte degli incendi c’è una mano criminale. Si tratta dunque di crimini dolosi. Non è di questo avviso Christian Mulder, delegato all’emergenza climatica dell’Università di Catania. “A mio avviso – chiosa il professore – quando si dice che gli incendi sono dovuti ad una natura dolosa, in un certo qual modo ci si lava le mani. Non è così. C’è molto da fare: dobbiamo contenere le emissioni gassose”. Non solo dolo, dunque. Anche l’emergenza climatica ha un ruolo di peso nelle consuete emergenze incendio della Sicilia.
“La temperatura – spiega Mulder – si innalza, le precipitazioni diminuiscono, le piante sono sempre più secche. È troppo semplicistico vederlo come doloso. Certamente ci sono anche quelli. Poi magari è qualche cretino che getta semplicemente una cicca o altro. Però la vegetazione mediterranea è una vegetazione dominata dall’ecologia del fuoco: sono circa 60 milioni di anni che tutto gira intorno agli incendi. È vero che c’è una cattiva gestione. Ad esempio, si sa che nelle zone di transumanza si da fuoco alle sterpaglie. È una prassi che dura da 5.000 anni. Non è qualcosa di nuovo”.
Chi pensa che i cambiamenti climatici non abbiano un ruolo negli incendi siciliani dice che l’autocombustione dovuta al surriscaldamento climatico non esiste. È vero, va detto, ma il processo che porta dal climate change allo scoppio degli incendi è decisamente un altro. “Non credo nell’autocombustione – spiega Mulder – ma nel momento stesso in cui la vegetazione è completamente disidratata è facile che prenda fuoco. Per motivi che non sono per forza dolosi. Un esempio potrebbe essere il riflesso del vetro di una macchina su delle foglie di eucalipto completamente secche: dopo un paio di ore prendono fuoco”.
Un altro fattore determinante è la temperatura del suolo. “Quando si parla di surriscaldamento globale – continua – si tende sempre a parlare di temperatura media annua dell’aria. Ma anche il suolo diventa sempre più caldo. Nel momento stesso in cui diviene caldo ed è secco, le radici delle piante non ce la fanno più ad assorbire l’acqua necessaria e cominciano a disidratarsi e in parte a morire. Quelle sono delle aree a rischio incendio. Cosa che succede regolarmente in Australia. Anche quello è un fenomeno assolutamente naturale per quel tipo di ecosistema. Attenzione: una cosa è la macchina Mediterranea che si trova anche in Sud Africa e in Australia, altra cosa è un incendio in una foresta pluviale come quelli attizzati con il bene placito di Bolsonaro in Brasile. Quelli sono dolosi perché la gente vuole disboscare per ricavare spazio per pascolare le vacche di Mc Donald o Burger King o per coltivarci poi il mango, il caffè, il tabacco. Ce ne vuole perché una foresta pluviale prenda fuoco. L’eucalipto, invece, indifferentemente se sta qui come quelli che hanno preso fuoco a Catania l’anno scorso, o nella fascia orientale dell’Australia, è normale che prenda fuoco”.
Per la biodiversità gli incendi in Sicilia non sono un danno, bensì sono necessari per fornire nuovi nutrienti all’ecosistema mediterraneo secondo il professore. Lo stesso però non si può dire per gli animali che muoiono e per i danni economici che ne derivano quando vengono lambite aziende agricole o, ancora peggio, abitazioni civili.
Ma quindi le emergenze incendi sono inevitabili? Certamente no. Bisognerebbe solamente che la politiche accolga le istanze degli esperti e degli addetti ai lavori. “Non credo che limitando il consumo di suolo e le emissioni – spiega ancora Mulder – possano diminuire gli incendi. Ma potrebbero diminuire le emissioni. Un buon motivo per cercare di contenere gli incendi è proprio la CO2. Le piante fissano questo gas ma quando prendono fuoco la rilasciano, quindi contribuiscono alle emissioni. Tutti gli incendi del 2019 in Australia sono comparabili con la CO2 non emessa durante il lockdown nel 2020”.
Ovviamente non è nulla rispetto a quella che continua ad essere emessa dalle fabbriche, ma è come un cane che si morde la coda. “Per cambiare la situazione – continua – bisognerebbe cambiare il nostro stile di vita. Non dobbiamo aspettare che siano quelli di Roma o quelli di Bruxelles a risolvere tutto. Anche a livello regionale dovremmo muoverci. Facciamo l’esempio delle isole di calore: il Pnrr ha messo a disposizione dei fondi per rendere più vivibili i centri urbani delle città metropolitane. Io sono stato contattato da Reggio Calabria per rendere la città più verde sfruttando questi fondi. Ci vuole più intraprendenza, che non c’è nella nostra regione o a livello nazionale. Ed è un peccato, soprattutto con il Pnrr perché il 40% dei fondi è riservato al Sud. Ma se il Sud non presenta proposte, questi fondi vanno al Nord”.