Non finanziare partiti e sindacati inesistenti - QdS

Non finanziare partiti e sindacati inesistenti

Non finanziare partiti e sindacati inesistenti

sabato 30 Novembre 2024

Secco “No” di Mattarella

L’articolo 39 della Costituzione disciplina i sindacati e prevede che essi debbano essere registrati “presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge”.
Conseguentemente, gli attuali sindacati, che a livello nazionale e locale sono forse una cinquantina, hanno forma di associazione privata – costituita ai sensi dell’articolo 36 e seguenti del Codice civile – pari a un’associazione che potrebbe essere stipulata dal sottoscritto e da altri quattro amici al bar.
Dunque, quando i segretari parlano “a nome di”, essi rappresentano delle voci private che non hanno valenza pubblica e quindi vanno tenute in considerazione per quello che sono, non per quello che vorrebbero essere.

Perché in questi quasi ottant’anni nessun Governo ha proposto, e nessun Parlamento ha approvato, la legge attuativa prevista dal precedente articolo 39? Vi può essere una risposta maliziosa e cioè che i sindacati preferiscono continuare a essere cani sciolti piuttosto che essere regolati da apposita legge, che prevede il controllo dei bilanci, del numero degli associati e altre verifiche di pari natura.

Quanto precede ci fa vedere come gli attuali sindacati, di qualunque tipo e colore, non hanno l’autorevolezza di quei soggetti che discendono da una legge, appunto perché non sono altro che associazioni private.

L’articolo 49 della Costituzione recita: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Anche in questo caso, come in quello dei sindacati, i Costituenti hanno previsto che il Parlamento dovesse approvare un’apposita legge per regolare il funzionamento dei partiti. Ma anche in questo caso essa non è mai stata approvata, probabilmente per le stesse ragioni che abbiamo elencato prima, e cioé per evitare i controlli legali su bilanci, stipendi, emolumenti, spese e via enumerando.

Non si spiega altrimenti questa voluta non esecuzione di due dettati costituzionali (articoli 39 e 49) su due soggetti che continuano ad agire come associazioni private. Essi hanno impedito in tutti i modi che il Parlamento approvasse le leggi che li dovessero disciplinare, per cui ci sovviene il famoso detto di Andreotti: “A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”.
Il Governo, con una subdola manovra, aveva tentato di reinserire in un Decreto-legge il finanziamento pubblico dei partiti, abolito molti anni fa, per sedare l’indignazione della Pubblica opinione sorta dai numerosi e vasti scandali che avevano causato i soggetti politici fino al 1994.

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, con il suo consueto rigore, ha comunicato al Governo che non esistevano i motivi di necessità e urgenza per inserire questo provvedimento in un Decreto-legge, ai sensi dell’articolo 77 della Costituzione.

Cosicché, ha eretto un muro invalicabile. Prontamente il Governo ha fatto macchina indietro però non sappiamo se dietro la spinta populista i partiti non tenteranno, nel prossimo futuro, di ripristinare il famigerato finanziamento pubblico mediante una legge ordinaria, che in questo caso il Presidente Mattarella non potrà fermare, anche se una tal legge solleverebbe di nuovo l’indignazione dei/delle cittadini/e, almeno di quelli/e che non hanno la memoria corta e si ricordano dei disastri che fecero tutti i partiti dell’epoca.

Le questioni che riportiamo oggi alla vostra attenzione rientrano nel più vasto orizzonte del taglio della spesa pubblica corrente, cioè quella cattiva, che più volte abbiamo riproposto e che costituisce una zavorra per il bilancio dello Stato.
Sappiamo tutti/e il gravame dell’enorme debito pubblico, che si avvia a tremila miliardi e che supera il centotrenta per cento del Pil, quando i trattati europei prevedono il massimo coefficiente del sessanta per cento nel rapporto fra debito e Pil.

È proprio qui che casca l’asino: l’incapacità di tutti i Governi dalla seconda Repubblica a oggi di tagliare senza riguardi quella fetta di spesa pubblica corrente che, secondo stime diverse, oscilla fra i cinquanta e i sessanta miliardi.
La mancanza di capacità e di voglia di procedere a questo taglio – che scontenterebbe ovviamente tutti gli aficionados, cioè i percettori indebiti – porta alla necessità poi di tagliare invece spese utili, soprattutto quelle per opere pubbliche e per investimenti.

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