“Quanta gente parla a vanvera”: un modo di dire datato, ma pur sempre attuale. Oppure: “Dar fiato alla bocca”, un altro modo di dire per indicare l’inconsistenza di un certo modo di parlare. Tutto ciò è conseguente a un basso dosaggio dei miliardi di neuroni che ognuno di noi ha nel proprio cervello e/o al cattivo funzionamento dei suddetti neuroni per scarsa connessione o incomprensione fra essi.
I napoletani, che sono caustici, per indicare il vuoto nella testa di alcuni dicono: “Tiene ‘a capa pe’ spartere ‘e rrecchie”. In Sicilia si dice: “C’hai a testa sulu ppi spaddari shampoo”.
Quanto precede non vuole sminuire l’intelligenza umana, ma sottolineare che essa, anche se posseduta, è poco usata in molti casi. Perché, se avvenisse il contrario, tante cose andrebbero meglio, frutto di elaborazioni ponderate e calibrate, con conseguenti decisioni adeguate alle questioni esaminate.
Perché è essenziale che ognuno di noi rifletta prima di parlare, in modo che il senso di ciò che dice corrisponda a ciò che pensa.
Ciò accade per le persone in buona fede, mentre quelle in malafede dicono parole o frasi che riflettono il loro punto di vista, ma al contrario, per ingannare l’interlocutore.
C’è chi blandisce, chi accarezza, chi rende omaggio agli altri, ma tutto questo è uno strumento subdolo per ottenere qualcosa senza corrispettivo.
La parola: ecco il veicolo che trasmette il nostro modo di pensare. Certe volte essa è automatica, cioè frutto di istinto o anche di reazione a fatti ed eventi che capitano. Altre volte è, invece, un veicolo per seminare zizzania e creare situazioni guerresche, dalle quali trarre vantaggio.
Ma c’è l’aspetto buono e cioè la parola adoperata per confortare chi ne abbia bisogno, ovvero per aiutare chi si trovi in difficoltà. Insomma, come tutte le cose di questo mondo, la parola può essere uno strumento positivo o negativo, a seconda della volontà di chi l’adopera.
Ai nostri giorni, comunicare è diventato uno strumento comune per influenzare chi ascolta. Da lì i cosiddetti “influencer” che cercano con tutti i mezzi di far fare agli altri ciò che vogliono.
Una volta le armi erano strumenti di conquista per soggiogare popolazioni. Ormai esse sono addizionate alle informazioni, le quali condizionano il cervello delle persone, per dirigerle verso obiettivi diversi da quelli loro favorevoli.
Nel mondo dell’informazione, vi sono le cosiddette Information Warfare, cioè le notizie come strumento di offesa e di conquista. Un “metodo” comune a quel mondo virtuale che, pur non essendo solido, condiziona fortemente le popolazioni e, per conseguenza, i loro usi e costumi.
Oggi possiamo citare almeno tre tipi di guerre delle informazioni: quella personale, quella aziendale e quella globale.
Ovviamente, al di sotto di queste guerre, vi sono progetti psicologici per condizionare chi riceve queste informazioni. Esse hanno anche rilevanza nel mondo economico perché inducono a consumi secondo le intenzioni di chi le fornisce e, molto spesso, contro gli interessi di chi le riceve.
Poi vi sono le informazioni delle guerre, che si continuano a combattere con missili e proiettili. Ma tutte le azioni relative sono governate da apparati digitali che trovano sempre più spazio. è impensabile fare una guerra senza un retrostante apparato digitale.
A monte di tutto ciò, vi sono gli apparati informativi di spionaggio per assumere informazioni in altri Stati e di controspionaggio per contrastare l’intrusione dei terzi nel proprio Stato.
Come vedete, da queste poche righe, risulta evidente l’importanza della parola, della frase, della comunicazione, successiva a una elaborazione mentale, sempre più sofisticata e sempre più indirizzata.
Quale sarebbe il punto di equilibrio generale? L’insieme delle regole etiche che dovrebbero governare i viventi umani e indurli a operare con obiettività, ragionevolezza e proporzionalità, peraltro precetti costituzionali.
Ma tutto ciò è difficile, anche se non impossibile: ci vuole molta buona volontà da parte di chi ha il dovere di dare l’esempio.