“Pietrificati. Sgomenti. Ancora un giovane che toglie la vita ad un altro giovane. In modo brutale. Distrutte due vite, travolte famiglie, due in particolare. Il dolore e il turbamento ci travolgono. Caino continua ad uccidere”. Sono le parole di monsignore Corrado Lorefice e monsignor Gualtiero Isacchi, arcivescovi rispettivamente di Palermo e Monreale, dopo l’omicidio del 21enne Paolo Taormina nel centro storico di Palermo.
Non si danno pace i due rappresentanti religiosi, così come le istituzioni e i cittadini, che chiedono più sicurezza e dicono “basta” alla cultura della violenza e dell’odio che sta trasformando Palermo da meravigliosa città a inferno.
Il dolore degli arcivescovi di Palermo e Monreale per l’omicidio di Paolo Taormina
Monsignor Lorefice e monsignor Isacchi sono netti e chiari nella condanna di quanto avvenuto lo scorso sabato sera: “È solo mostruosità”. Per loro c’è solo strazio, non solo per la vittima e per “chi ha perso un figlio, un fratello, un amico”, ma anche per il “fallimento educativo di una famiglia che ha cresciuto un figlio ma senza trasmettergli il valore inalienabile e intoccabile della propria e altrui vita” – con riferimento all’autore dell’efferato delitto – e per l’intera comunità, che si trova ad affrontare ancora una volta gli effetti di una cultura violenta che prende sempre più piede tra i giovani (e non solo).
“Basta cultura di morte”
“La Chiesa si interroga. La Città si interroga – aggiungono gli arcivescovi dopo l’omicidio di Paolo Taormina – Quanto spazio abbiamo dato al culto del potere, dell’avere, della bruta forza, dei privilegi di casta, humus propizio per foraggiare mentalità e organizzazioni mafiose di ieri e di oggi? Quanto spazio abbiamo accordato alla loro cultura di morte, al loro subdolo sentirsi come divinità che hanno potere e diritto sulla vita degli altri? Troppo abbiamo sopportato la presenza di questa cultura, che si è infiltrata ovunque, in modi sottili, silenziosi, convincendo tanti di noi che fosse l’unica possibile e che ‘nulla mia cambierà’. E ritorna la sensazione devastante di sentirci falliti: come genitori, come educatori, come Chiesa, come istituzioni, come uomini e donne di governo”. “Cosa abbiamo trasmesso ai nostri ragazzi? Come li abbiamo custoditi?”, si chiedono i due monsignori ricordando non solo i fatti dello scorso sabato ma anche l’altrettanto recente strage di Monreale e altri fatti da far west che hanno portato morte e dolore in Sicilia.
Tra dolore e speranza
La reazione della comunità all’omicidio di Paolo Taormina è stata forte: le fiaccolate, il vertice Piantedosi-Schifani-Lagalla a Roma, l’ipotesi delle “zone rosse” a Palermo, gli appelli alla non violenza… Sono gesti che fanno intravedere una possibile luce in fondo al tunnel, che alimentano la speranza che prima o poi la scia di sangue e odio si arresti. “Non abbiamo risposte, ma domande alle quali non intendiamo sottrarci – dicono gli arcivescovi di Palermo e Monreale – Che il crudele omicidio di Paolo Taormina, sulla scia della barbara uccisione di Gesù di Nazareth, diventi punto fermo per una svolta. Che la vita di Paolo diventi segno di trasformazione delle nostre Città, germe di rinascita. È vero, ce lo eravamo augurati già lo scorso aprile, dopo quella notte di sangue a Monreale. Oggi rinnoviamo la stessa speranza”.
“Non si tratta solamente di presidiare e mettere a soqquadro i quartieri a rischio o i luoghi della movida, bensì di essere presenti tutti e insieme, a cominciare dalle istituzioni civili, militari, scolastiche, religiose, con una ‘politica’ della cura dei cittadini più fragili. Fragili per mancata equa destinazione di beni (lavoro, casa, pane), per accesso alla cultura, per opportunità occupazionali e di crescita umana e spirituale. Abbiamo bisogno di rivedere le nostre politiche sociali, urbanistiche, di sviluppo culturale ed economico”, aggiungono.
“Dobbiamo ammettere i nostri fallimenti. Dobbiamo ammetterli tutti insieme – concludono gli arcivescovi – Siamo stati noi, uomini, a relegare altri uomini in spazi e contesti periferici. Se non partiamo dall’unico ‘centro’ che è l’uomo e la sua dignità, se non riprendiamo in mano la Costituzione italiana a partite dai primi suoi articoli, creeremo sempre più periferie urbane ed esistenziali. Vedremo aumentare il disagio giovanile che ha nella violenza un segno conclamato: noi adulti non riusciamo ancora a riconoscerlo e a interpretarlo. Se non partiamo dai più poveri, dagli scarti umani generati dalla nostra cultura dell’indifferenza, dell’economia del profitto, del piacere sfrenato, del potere della forza, non potrà mai esserci una convivenza serena nelle nostre città. Incentiveremo disuguaglianze, ingiustizie e, conseguentemente, sottocultura e violenza. Saremo noi, che ci reputiamo ‘giusti’ e meritevoli, gli sponsor invisibili (ma consapevoli!) delle perverse ‘strutture di peccato’ malavitose e mafiose. Basta violenza. Basta uccisioni. Torniamo a educare, a coinvolgerci e a governare nel segno dell’umanità: ogni vita è sempre sacra”.
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