“Un Papa al passo con i tempi e che probabilmente anche grazie alla sua provenienza territoriale, il Sud America, ha un modo di diffondere messaggi che rende tutto comprensibile”: così, nel febbraio 2023, Monsignor Dario Edoardo Viganò – nella qualifica di vice cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali – descriveva papa Francesco durante il Forum con il QdS, condotto dalla dottoressa Raffaella Tregua, vicedirettore del Quotidiano di Sicilia e oggi anche direttrice di QdS.it.
In ricordo di papa Francesco, scomparso nella mattinata del Lunedì dell’Angelo, riproponiamo alcuni estratti del Forum con Monsignor Dario Viganò, in particolare le parole che sottolineano la semplicità, l’originalità e la missione per la pace che il Pontefice ha portato avanti fino all’ultimo giorno di vita lasciando ai fedeli un forte testamento morale.
Monsignor Dario Viganò, “La Gioia” di Papa Francesco raccontata al QdS
Lei ha curato la prefazione al libro di Papa Francesco, “La Gioia”, intesa sì in senso cristiano, ma ponendo l’accento sull’importanza di essere felici e di contagiare il mondo…
“Il Papa dice una cosa semplicissima: un cristiano la gioia deve avercela per definizione. Anche se non significa che un non cristiano non possa avercela. Si chiamerà, però, ottimismo. La gioia cristiana non dimentica le fatiche. Il libro, a un certo punto, cita l’esperienza dei discepoli di Emmaus, due che avevano investito affettivamente nel maestro di Nazareth il quale, però, a un certo punto muore. Così riprendono la propria strada, con la delusione nel cuore. Finché, a un certo punto, ma tardivamente, si accorgono che a camminare a fianco a loro c’è proprio Gesù. E cosa dicono? ‘Non ci ardeva forse il cuore di gioia quando parlava con noi?’. Ecco, la gioia cristiana è la capacità di rileggere la storia partendo dalla fine, che è l’esperienza della figliolanza con Dio, ricevuta attraverso il sacramento del battesimo. Un Dio che non dobbiamo ‘cercare’, perché già dentro di noi, ma testimoniare. Con gioia, appunto”.
Il nuovo modo di comunicare della Chiesa
All’interno del Vaticano lei si è occupato anche del processo di riforma della comunicazione, di cui è stato anche prefetto. Com’è strutturata la comunicazione, oggi, in Vaticano?
“In questo momento ci sono due canali. Uno è quello istituzionale del Dicastero. Poi c’è quello del Pontefice che risponde a sensibilità personali. Papa Francesco ha una modalità di comunicazione molto diretta, creativa e molto efficace, toccando tematiche fino a pochi anni fa impensabili e di difficile verbalizzazione. Un Papa al passo con i tempi e che probabilmente anche grazie alla sua provenienza territoriale, il Sud America, ha un modo di diffondere messaggi che rende tutto comprensibile. Pensando al recente passato, anche Papa Wojtyla lo era. Un grande pastore, ma di generazioni fa, quindi di un’epoca in cui certi argomenti e un certo lessico non venivano toccati o usati nemmeno dalla cultura laica”.
Pace, una missione
Papa Francesco sulla guerra in Ucraina ha speso molte parole, invitando più volte russi e ucraini a trattare, dichiarandosi disposto a incontrare, quale uomo di pace (e ha rimarcato che tutti noi dovremmo esserlo, qualunque funzione rivestiamo nella società), sia Putin che Zelensky. A suo avviso, quali sono ruolo e responsabilità che ha, in questo contesto, il capo di una comunità religiosa importante come quella cattolica?
“La responsabilità è direttamente proporzionale all’autorevolezza che gli viene riconosciuta. E, senza dubbio, il nostro Papa è un’istituzione molto autorevole. Io credo che prima di tutto si debba comprendere e far comprendere che la Fede è più importante della Nazione: è assurdo che battezzati ortodossi russi e battezzati ortodossi ucraini o anche battezzati con rito greco bizantino si uccidano in nome della Nazione. Sono tutti figli di Dio che si ammazzano fra di loro. Il secondo aspetto è che bisogna sensibilizzare sul fatto che le lacrime di una madre russa sono uguali a quelle di una madre ucraina: è lo stesso dolore di due donne a cui hanno ucciso il figlio. Penso che se si partisse dalla consapevolezza che le ferite sono comuni e non hanno appartenenza nazionalistica, allora sia possibile cominciare un cammino di riconciliazione. In caso contrario, la questione resta solo politico-economica, la miccia che accende tutti i conflitti”.
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