Secondo i dati Sias, a ottobre registrato il quantitativo di precipitazioni più basso degli ultimi cento anni. Complessivamente si è assistito a un calo del 13 per cento dei voumi invasati rispetto all’anno precedente. E l’agricoltura già paga un prezzo alto...
A differenza dell’aridità, termine con il quale s’indica una condizione climatica naturale permanente in cui la scarsa quantità di precipitazioni annue, associata a elevate temperature, non fornisce al terreno il necessario grado di umidità da promuovere lo sviluppo della vita, la siccità è una condizione meteorologica naturale e temporanea in cui si manifesta una sensibile riduzione delle precipitazioni rispetto alle condizioni medie climatiche del luogo in esame. Quindi precipitazioni sempre più ridotte e temperature sempre più elevate concorrono a minare, unitamente ad altri fattori naturali e antropici, la qualità dei suoli.
Nelle ultime settimane si è alzato il grido di allarme al drammatico fenomeno della siccità da parte del Sias, il Servizio informativo agrometeorologico siciliano, anche se da mesi gli agricoltori e le loro associazioni di categoria lamentano disagi. Dall’analisi climatologica del Sias, lo scorso mese di ottobre è stato fortemente anomalo anche per le temperature, tanto da far registrare il quantitativo di precipitazioni più basso della serie storica che parte dal 1921. Le precipitazioni sono state così scarse nel secondo semestre dell’anno, risultando, come media regionale, inferiori anche a quelle della grave siccità del 1977 e la media regionale calcolata sulla base dei dati della rete di stazioni Sias indica un accumulo medio di circa 6 mm, valore inferiore anche al minimo precedente di 9 mm registrato nel 2001, che avviò lo sviluppo successivo di un lungo periodo di grave siccità che ebbe il suo culmine nel 2002.
Dopo l’eccezionale ottobre, anche il mese di novembre è stato caratterizzato da una marcata anomalia termica, frutto di condizioni che hanno visto instabilità abbastanza frequente, ma solo nella terza decade accompagnata da flussi significativi di aria fredda. La porzione centrale del mese ha registrato invece un’ondata di caldo decisamente anomala, da record se si guarda agli ultimi vent’anni.
La carenza di eventi piovosi significativi unita alle temperature superiori alla media stagionale ha comportato gravi problemi per gli agrumi, come peraltro lo scorso novembre aveva denunciato, in un’intervista al QdS, il presidente di Coldiretti Catania, Andrea Passanisi, evidenziando il ritardo nella pigmentazione dell’arancia rossa proprio per mancanza di freddo, indispensabile per la colorazione, e una “pezzatura” più piccola, due elementi che rischiano di compromettere la resa dei prodotti sui mercati.
Lo scorso anno, insomma, si può definire un anno disastroso nonostante i benefici temporanei apportati dalla piovosità dei mesi di maggio e giugno: a dicembre 2023, stando ai dati della Regione, negli invasi dell’Isola sono stati raccolti “solo” 309 milioni di metri cubi contro i 356 dell’anno precedente, con un calo intorno al 13 per cento.
È evidente che il cambiamento climatico rischia di segnare profondamente la Sicilia anche, ma non solo, per la mancanza di pioggia. L’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) aveva valutato la Sicilia già nel 2022 in condizioni di siccità estrema con il 40% del territorio in siccità severa e moderata, evidenziando i rischi per il settore agroalimentare e gli ulteriori aumenti di quest’anno fanno ipotizzare una accelerazione dei danni ambientali che rischiano di essere permanenti. Il grave rischio che stiamo correndo è che in Sicilia si possa assistere a una progressiva desertificazione nel prossimo decennio. La regione è oggi desertica per circa il 43% della sua superficie e le previsioni sono in peggioramento anche perché, secondo uno studio della Società meteorologica italiana, ogni anno 117 km quadrati diventano deserto in Sicilia.
Ma la questione è talmente complessa e delicata e gli effetti collaterali non hanno tardato a mostrarsi, tanto che gli esperti hanno evocato l’espressione “crisi idrica”. Gli invasi sono sotto il livello di guardia quindi l’acqua è razionata e ciò non accadeva da parecchi anni. I volumi d’acqua negli invasi Fanaco e Leone sono sotto il livello di guardia proprio a causa della siccità e, inevitabilmente, è scattato il piano di razionamento delle forniture idriche, definito dall’Autorità di bacino, nei Comuni serviti da Siciliacque. È più che mai evidente che, oltre alle contromisure necessarie per riuscire ad affrontare l’attuale cambiamento climatico, sia necessario trasformare i vizi in virtù, a cominciare da una massiccia operazione di depurazione delle acque reflue al fine di creare una nuova e possibile risorsa per l’agricoltura e cristallizzare il contenuto degli invasi per destinarli esclusivamente all’utilizzo umano calmierando anche la modificazione morfologica dell’isola. Senza dimenticare la necessità di mettere mano a una rete idrica vetusta che continua a disperdere, nel complesso, circa il 50% dell’acqua immessa in rete.
Resta infine, tra le altre, una domanda: che fine ha fatto il famoso Dl 39/2023 convertito in legge n.68 del 13 giugno 2023 che, tra l’altro, prevedeva una “cabina di regia nazionale” e interventi specifici la realizzazione, il potenziamento e l’adeguamento delle infrastrutture idriche, l’utilizzo dei volumi degli invasi per il contrasto alla crisi idrica, la raccolta di acque piovane per uso agricolo e il riutilizzo delle acque reflue depurate a uso irriguo? Al momento in cui andiamo in stampa, la Regione non ci ha dato l’autorizzazione a intervistare il segretario generale dell’Autorità di bacino del Distretto Idrografico della Sicilia ingegnere Leonardo Santoro.
Al QdS interviene il direttore generale dell’Anbi, Massimo Gargano
“In Italia si fa poca manutenzione perché è preventiva e silenziosa”
Interviene al QdS Massimo Gargano, dal 2014 direttore generale Anbi, l’Associazione nazionale consorzi di gestione e tutela del territorio e acque irrigue, e membro del Consiglio di amministrazione della Fondazione Enpaia. Nel 2015 è segretario nazionale Snebi (Sindacato nazionale enti di bonifica). Dal dicembre 2015 è membro del Comitato scientifico della Fondazione “Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare“ e dal febbraio 2018 è del Comitato scientifico Cesbim, il Centro studi bonifiche italia meridionale, nonché consigliere dello Svimez.
Direttore, dal punto di vista del clima e all’ambiente, come possiamo considerare il 2023?
“Un anno in cui il bilancio delle piogge è stato pressoché identico a quello degli anni precedenti ma il bilancio delle temperature possiamo definirlo il più caldo degli ultimi decenni e di questo secolo. È stato un anno in cui le contraddizioni poste dai cambiamenti climatici si sono evidenziate in ogni forma: l’anno della grande siccità e delle piogge, l’anno di una pessima raccolta di uve e olive dovuta sia alla pioggia al momento della legagione dei fiori e alla successiva siccità. L’anno, il 2023, quello in cui sono stati stimati oltre 6 miliardi di euro di perdite per l’agricoltura ma anche quelle con perdite di vite umane nelle Marche, a Ischia, nella Marmolada”.
Le azioni intraprese dal Governo sono adeguate o insufficienti rispetto alla gravità e all’urgenza della situazione?
“Possiamo ritenerci soddisfatti. Sono stati stanziati 4,5 miliardi di euro relativi a progetti dichiarati eleggibili e di questi ne sono stati finanziati una parte con 2,3 miliardi di euro. Ma, nell’approvazione dell’ultima legge finanziaria, ci siamo resi conto che, terminato il periodo Covid, siamo di nuovo sottoposti ai vincoli nel c.d. patto di stabilità che non consente diverse tipologie di spesa, come quella dei consorzi di bonifica e della realizzazione del piano invasi e dei c.d. laghetti. Sappiamo che i costi per il ripristino dei territori devastati sono elevatissimi e sappiamo che 1 euro speso in prevenzione vale 5 euro spesi in emergenza e soprattutto evitare che l’uomo abbandoni i terreni e le sue attività perché, se manca l’acqua in termini di qualità e quantità, non sarà mai possibile realizzare attività imprenditoriali competitive. Su questo è necessario aumentare il livello del dibattito ovunque”.
Il termine manutenzione è stato cancellato dal vocabolario del nostro paese?
“Soprattutto il termine prevenzione, è stato cancellato storicamente dal vocabolario. Si fa poca manutenzione perché è preventiva ed è silenziosa mentre la soluzione in emergenza fa più clamore, attira attenzione e spesso investimenti senza la trasparenza necessaria”.
A fronte dell’entrata in vigore della legge 68/2023, l’ex DL Siccità, e della “Cabina di regia nazionale” come giudica il lavoro sino ad ora svolto?
“Ho partecipato a tutte le riunioni della cabina di regia e devo dire che il commissario Dell’Acqua e il suo tavolo tecnico hanno identificato il problema, le relative soluzioni e come andare verso la c.d. Agricoltura 4.0. Ora si tratta di dare coerenza a tutto ciò e far partire le soluzioni necessarie e solo in quel momento avremo dato una risposta al paese. Ritengo che l’approccio commissariale sia stato il più giusto”.
Veniamo alla Sicilia, rete idrica che assomiglia a un colabrodo, invasi inadeguati. Nella legge di bilancio c’è una proposta che riguarda la realizzazione di laghetti o piccoli invasi per uso irriguo e una relativa alla riforma dei consorzi di bonifica. Ritiene che si tratti di strumenti efficaci?
“Gli allarmi sulla mancanza d’acqua è oggi di estrema attualità. La viticoltura e l’ulivicoltura siciliana si stanno avviando a essere eccellenza a livello internazionale. Ho seguito personalmente tutte la fasi della legge oggi in discussione e la ritengo necessaria, importante e di una modernità assoluta. Quella legge deve essere approvata per l’economia, per l’occupazione che ne deriverebbe da una corretta e sana gestione che non si può fare se i consorzi di bonifica sono gestiti dalla Regione. Possiamo continuare con le polemiche, a dichiarare lo stato di emergenza, a catalogare e monitorare incendi, vittime, siccità o inondazioni oppure metterci in condizioni di lavorare, e bene, nell’unica direzione possibile, che è quella di territori che hanno a disposizione l’acqua che quando è in eccesso è stivata nei ‘laghetti’ e utilizzandola per produrre energia, per poterla potabilizzare in caso di necessità e per ricaricare le falde”.
Parla il direttore del Centro Agricoltura e Ambiente del Crea, Giuseppe Corti
“Dobbiamo trattare le acque che buttiamo”
Interviene al QdS il prof. Giuseppe Corti, direttore di “Crea Agricoltura e Ambiente”, presidente della “Società Italiana della Scienze del Suolo” e Professore ordinario del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali dell’Università Politecnica delle Marche, Ancona.
Professore, siccità e crisi idrica stanno affliggendo il nostro paese…
Siamo in un periodo climatico che le modalità con le quali durante l’anno piove sono sicuramente diverse da quelle di trent’anni fa. Oggi in molte aree del paese piove un po’ meno rispetto a 50-60 anni fa e, quando piove, avviene in maniera diversa, tendenzialmente con eventi di elevata siccità. Credo però che il problema della siccità vada affrontata anche da un ulteriore punto di vista perché, quello che spesso non si dice, è che rispetto alla siccità siamo noi che abbiamo delle responsabilità gigantesche.
A cosa si riferisce?
Al fatto che abbiamo introdotto anche nelle regioni del Sud un sistema di agricoltura che è eccessivamente idrovoro. Oggi abbiamo sistemi agricoli che richiedono una quantità d’acqua che nel passato nessuno avrebbe mai immaginato di impiantare proprio per la scarsità d’acqua. Ci illudiamo che con pozzi che pescano a 7-800 metri e con pompe a immersione da 100 Hp si possa fare quello che vogliamo. In Sicilia, ad esempio, la cultura di frutti tropicali, come quella nel nord dell’Isola che ha una necessità idrica altissima, o ancora la grande quantità suoli su cui sono impiantati vigneti irrigui, come quelli di uva tardiva della zona Porto Empedocle, rappresentano una scelta che nel passato si sarebbe ritenuta impensabile. Molti degli appelli che arrivano dalle associazioni di categoria, richiedono impegni da parte della politica e di quanti sono deputati a migliorare le condizioni agricole che non sono assolvibili perché sarebbe necessario ritornare a colture più tradizionalmente adatte ai singoli territori. Grande responsabilità le ha il mercato che, con le sue necessità, condiziona le scelte degli imprenditori agricoli. Pescare acqua da falde sotterranee, inevitabilmente, porta anche a ulteriori scompensi e le falde non sono infinite. Purtroppo le scelte dell’agricoltura non tengono a volte conto di quello che si chiama pedoclima, quella ottimale armonizzazione che sta tra tipo di suolo, tipo di clima e la coltura più adatta che sta in questo suolo sotto questo clima. Il clima e le sue mutazioni non sono arrestabili e non si può ritornare a uno stato precedente, questo significa che dobbiamo adattarci.
Si parla di laghetti e invasi di raccolta delle acque e, poco, di depurazione delle acque reflue…
La scelta di costruire invasi collinari, spesso un surrogato di imprese dedite alla cementificazione, rischia di metterci su una strada che può dare solo soluzioni provvisorie. Penso invece che quella del trattamento delle acque reflue sia la strada da seguire. Abbiamo a disposizione una quantità enorme di acqua derivante dal consumo umano, si parla di 250 litri di acqua al giorno a persona, che è sprecata. Pensi al consumo della sola città di Palermo e, quindi, alla quantità d’acqua che potremmo reinserire nel ciclo dell’irrigazione. Inoltre si tratta di acqua ricca di elementi nutritivi e quindi adattissima non solo all’irrigazione ma anche alla fertirrigazione, adattissima all’utilizzo in agricoltura. Dobbiamo trattare le acque che oggi buttiamo, questa è la strada.
Il punto di vista dell’agronomo Giovanni Greco
“L’acqua non è raccolta dagli invasi e si perde”
Interviene al QdS Giovanni Greco, componente del Consiglio dell’Ordine Nazionale dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali
Qual è la situazione in Sicilia?
“Stiamo subendo una siccità idrologica. Questo perché oltre alla mancanza di precipitazioni c’è un dato oggettivo: sebbene possa piovere, anche se poco, tutta l’acqua di superficie non è raccolta né dagli invasi tantomeno dai terreni e, di fatto, si perde. Per quanto riguarda la rete di approvvigionamento siamo in presenza di una rete inefficiente perché non si sono fatte le necessarie manutenzioni e gli stessi invasi naturali non sono ben mantenuti e con una ridotta capacità. Alla siccità idrologica, inoltre, si accompagna un altro fenomeno, quello del non risparmio dell’acqua. In Sicilia abbiamo da un lato impianti irrigui all’avanguardia e dall’altro impiantistica obsoleta e non efficienti. Proprio la figura dell’agronomo può intervenire per l’ottenimento di un equilibrio, indirizzando le nuove tecniche d’irrigazioni a favore di una gestione più oculata”.
Laghetti e invasi di raccolta delle acque e riforma dei consorzi di bonifica sono all’ordine del giorno dell’agenda politica regionale. A suo giudizio possono rappresentare un’adeguata soluzione?
“La possibilità di creare nuovi invasi rappresenta, sia dal punto di vista concettuale un fatto positivo e auspicabile. Rimane un’incognita: si riuscirà a definire un’adeguata programmazione e progettazione che riguardi tutto il territorio siciliano, perché il rischio è creare un sistema che non tenga conto degli equilibri macro ambientali perché c’è il rischio di alterare la falda o gli equilibri di superficie che si potrebbero riscontrare. L’altro rischio è che si tratti d’interventi a pioggia che riguarderanno solo le aziende più strutturate dal punto di vista economico. Rispetto, invece, ai consorzi di bonifica, si apre un vaso di pandora. Nel passato hanno rappresentato un’importante soluzione ma si sono rivelati la causa di molti problemi quali la mancanza di manutenzione anche a causa dell’inadeguatezza (sia in termini di qualità e quantità) del personale. Si sono trasformate in strutture burocratiche. In sostanza, se c’è una riforma, ben venga ma è auspicabile un intervento di programmazione bottom-up”.
Il trattamento delle acque reflue potrebbe essere un’alternativa sia dal punto di vista dell’irrigazione che del rispetto ambientale?
“Da agronomo che lavora sul capo da 35 anni le posso dire che sarebbe auspicabile. A Catania, la mia città, esiste un impianto che, al tempo, fu definito all’avanguardia anche se oggi, per diversi motivi, si è persa efficienza ed efficacia. È evidente che la realizzazione di impianti di trattamento delle acque, in maniera sovracomunale attraverso strutture consortile, potrebbe risolvere diversi problemi perché da un lato risolveremmo il problema della gestione delle acque reflue e delle fognature civili e dall’altro miglioreremmo l’ambiente perché, anche solo riversando le acque depurate negli alvei dei fiumi avremmo vantaggi. Se a questo aggiungiamo la possibilità del loro utilizzo in agricoltura, questa soluzione rappresenterebbe un toccasana. Anche in questo caso. Però, è necessaria una programmazione anche tecnica che verifichi le singole esigenze dei territori anche con una maggiora flessibilità ad ospitare gli impianti”.
Maria Pia Piricò: “Si rischia che parte dei semi non riuscirà a germinare”
PALERMO – Interviene al Qds l’avvocata Maria Pia Piricò, presidente di Confagricoltura Donna Sicilia, vicepresidente regionale di Confagricoltura Sicilia e vicepresidente di Confagricoltura Donna Nazionale.
Qual è la situazione oggi dell’agricoltura siciliana?
“La crisi derivante dal cambiamento climatico riguarda quotidianamente le nostre aziende e le nostre colture. I problemi sono vasti, ad esempio la coltivazione del frumento, semina dei mesi scorsi, ci propone la vista di campi in cui il frumento non è ancora emerso ma c’è il forte rischio che buona parte del seme non riuscirà più a germinare. Altri, come me, che hanno deciso di ritardare la semina dovranno affrontare un accorciamento del ciclo della pianta e ciò implicherà la scelta di dover scegliere varietà con un ciclo più breve”.
Avete lanciato un forte allarme che riguarda l’impossibilità di irrigare…
“Sì, e questo allarme riguarda soprattutto le coltivazioni irrigue. Per contro anche le c.d. aridoculture, come quella del frumento, che non hanno bisogno d’irrigazione perché si tratta di coltura estensiva che sfrutta il ciclo pluviale, sono in grande difficoltà per la mancanza di pioggia”.
Di cosa avreste bisogno?
“In questo momento la Regione sta ristrutturando il ruolo degli Enti di Bonifica. Questo significa per noi un grande supporto e, soprattutto, un abbattimento dei costi relativi all’acquisto di acqua. Ci sono infrastrutture in grado di alleviare il tema della crisi idrica e tra questi anche l’utilizzo di acque reflue, ovviamente trattate, ma l’ammodernamento della rete idrica, che oggi è un colabrodo e genera una dispersione e uno spreco di acqua, sarebbe fondamentale. Riteniamo, inoltre, che sia necessario prevedere un prestito di conduzione, già attivo fino al 2002, quando per le calamità naturali si concedeva un prestito con abbuono del 40%, che metta gli agricoltori in grado di avviare una nuova annata”.
Desertificazione significa soprattutto abbandono delle terre e chiusura delle aziende. Quali sono le vostre strategie di contrasto?
“Dobbiamo smettere di fare interventi a calendario ma posticipare le semine e aspettare le piogge. Occorre diversificare la produzione facendo anche delle scelte coraggiose, abituandosi a queste mutazioni climatiche. Per fare questo sarà necessario prevedere colture con cicli più brevi, ridurre quelle lavorazioni che generano evaporazione di acqua dal sottosuolo, come l’aratura. Dobbiamo smettere di puntare sulla monocoltura del seminativo, cercando alternative che possano sostituire o alternarsi con il frumento. Anche approfittando dei bandi regionali dobbiamo avviare il processo di modernizzazione delle aziende attraverso l’eliminazione degli sprechi e l’utilizzo di dotazioni che permettono di realizzare la c.d. agricoltura di precisione”.