Quali riflessi potranno avere le modifiche proposte sulla Corte costituzionale?
La riforma costituzionale volta a introdurre in Italia il cosiddetto “Premierato” dovrebbe risolvere secondo i suoi sostenitori l’annoso problema dell’instabilità dei Governi, mettendo il sistema politico al riparo dai “ribaltoni”, i tanto vituperati cambi di maggioranza in corso di legislatura ai quali vengono attribuite molte delle disfunzioni che affliggono il Paese.
La riforma, introducendo l’elezione contestuale del Parlamento e del Presidente del Consiglio con un premio del 55% dei seggi alla lista che ottiene la maggioranza relativa, comporta un rafforzamento del “Premier” e un parallelo indebolimento del Presidente della Repubblica, checché ne dicano gli artefici della riforma. Infatti, al Capo dello Stato di derivazione parlamentare si contrappone il Presidente del Consiglio che, forte dell’investitura popolare, diventa sostanzialmente arbitro dello scioglimento delle Camere qualora si dimostrino non più governabili.
Diminuirebbero i poteri del Presidente della Repubblica
Nell’eventualità di crisi della maggioranza il Presidente della Repubblica non potrà più dare l’incarico di formare il Governo a parlamentari esterni a questa o, come avvenuto per il passato, a figure autorevoli estranee al Parlamento, ma dovrà rinnovare l’incarico al Presidente eletto oppure conferirlo a un “vice” collegato al primo e vincolato al suo stesso programma e, in caso di diniego della fiducia, procedere allo scioglimento.
I riflessi sulla Corte costituzionale
Quali riflessi potranno avere le modifiche proposte sulla Corte costituzionale? Secondo alcuni lo schieramento che ottiene la maggioranza, grazie al premio potrà disporre di un consistente numero dei voti per eleggere i cinque giudici costituzionali di pertinenza del Parlamento (tre quinti dei componenti le due Camere dopo il terzo scrutinio). Se pure la maggioranza non avesse tutti i voti necessari probabilmente troverebbe nelle Assemblee qualche volonteroso disponibile a venire in suo aiuto.
Altro rischio paventato è che la nomina dei cinque giudici di spettanza del Presidente della Repubblica siano anch’essi espressione, seppure indiretta, della maggioranza visto che quest’ultima, sempre grazie al premio, disporrebbe di un consistente numero dei voti necessari a eleggere il Presidente (dopo il terzo scrutinio la maggioranza assoluta dei componenti l’assemblea elettiva formata dal Parlamento in seduta comune e dai delegati regionali) e questo potrebbe orientarsi su personalità gradite alla maggioranza. Appare tuttavia improbabile che il Presidente, organo di garanzia, eserciti il suo potere di nomina senza rispettare i giusti equilibri.
Una Corte composta in maggior parte da giudici di area governativa perderebbe quella connotazione “contro-maggioritaria” irrinunciabile secondo alcuni per un organo chiamato a controllare la conformità a costituzione delle leggi approvate dalle maggioranze parlamentari.
Il neo eletto Presidente della Corte, professor Augusto Barbera, ha fugato questi timori ritenendo le procedure previste in Costituzione per le nomine dei giudici atte a impedire la ventilata “occupazione” della Corte e invitando a non indulgere in un “costituzionalismo ansiogeno”.
Ma è il premio di maggioranza concesso senza la previsione di una soglia minima, richiesta in passato dalla Corte in sede di scrutinio delle leggi elettorali a sollevare ulteriori perplessità. Infatti il principio di rappresentatività che vieta una sovra-rappresentazione di alcune forze politiche a scapito di altre dovrebbe rientrare tra quei “principi supremi” non modificabili nemmeno con legge costituzionale, come la Corte ebbe ad affermare nella sentenza numero 1146 del 1988, ed è invece innegabile che risulti fortemente compromesso dalla riforma.