Un anno di carcere al percettore di Reddito di cittadinanza che lavora in nero

Reddito di cittadinanza, un anno di carcere per il percettore che lavora in nero

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Reddito di cittadinanza, un anno di carcere per il percettore che lavora in nero

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martedì 05 Luglio 2022

Lo ha sancito la Corte di cassazione che ha respinto il ricorso di un uomo che non aveva aggiornato l’Inps con le sue nuove condizioni patrimoniali.

Rischia il carcere chi percepisce il reddito di cittadinanza e poi lavora in nero. È irrilevante che il rapporto sia irregolare e non formalizzato con un contratto.

Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con sentenza del 9 giugno 2022, ha respinto il ricorso di un uomo di Messina che non aveva aggiornato l’Inps con le sue nuove condizioni patrimoniali. La terza sezione penale ha condiviso la decisione con la quale l’uomo è stato condannato in appello a oltre un anno di reclusione (inizialmente un anno e otto mesi, pena poi ridotta a un anno, un mese e dieci giorni di reclusione).

Omessa comunicazione all’Inps configura il reato

I giudici di merito hanno infatti ribadito la configurabilità del reato contestato al ricorrente a causa dell’omessa comunicazione all’Inps dello svolgimento di attività lavorativa retribuita, seppure irregolare, sottolineando l’inverosimiglianza di quanto dichiarato dall’imputato e dal datore di lavoro, a proposito della gratuità dell’attività lavorativa svolta dal primo, che sarebbe stata compensata solo con regalie saltuarie, e della configurabilità del reato in conseguenza della omessa comunicazione di una variazione patrimoniale rilevante, sussistente anche nel caso di conseguimento di somme di denaro per donazione.

Le motivazioni dei giudici di legittimità

Per i giudici di legittimità, infatti, di cui ha scritto il sito Cassazione.net, il motivo è fondato e, al riguardo, hanno ricordato che “Questa è una motivazione idonea, fondata sulla corretta applicazione della comune regola di esperienza secondo cui l’attività lavorativa, anche se irregolare, viene retribuita, oltre che di quanto riconosciuto dallo stesso datore di lavoro del ricorrente, che, sia pure qualificandole come “regalie” corrisposte in “occasioni particolari”, ha riconosciuto la corresponsione di compensi per l’attività lavorativa svolta nel suo interesse, cosicché le obiezioni del ricorrente finiscono per appuntarsi, in modo non consentito nel giudizio di legittimità, oltre che generico, su un accertamento di fatto, circa la corresponsione di una retribuzione (che avrebbe dovuto essere comunicata all’Inps), accertamento che è stato giustificato in modo logico e concorde dai giudici di merito e non è, dunque, suscettibile di rivisitazione in sede di legittimità, attraverso una rilettura delle risultanze istruttore da contrapporre a quella dei giudici di merito, che è concorde e non manifestamente illogica e non è dunque suscettibile di rivisitazione, tantomeno sul piano delle valutazioni di merito, compresa quella relativa alla intenzionalità della condotta omissiva addebitata al ricorrente, nel giudizio di legittimità.”

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