Marina Brambilla al QdS: “Necessario agevolare il binomio lavoro-famiglia e bisogna farlo insieme: Università e Istituzioni”
MILANO – In occasione di questo quarto appuntamento dedicato al lato femminile dei principali Atenei nazionali, il QdS ha sentito la rettrice dell’Università degli Studi di Milano, Marina Brambilla, soffermandosi sul tema del gender gap, che resta ancora oggi un obiettivo da raggiungere. Secondo l’indagine Global gender gap index 2024 del World economic forum, infatti, l’Italia ha colmato il 70,3% del divario, piazzandosi all’87° posto nella classifica globale. Il nostro Paese fatica soprattutto in ambito economico-lavorativo: il tasso di occupazione femminile è il più basso in Europa e la presenza delle donne scarseggia soprattutto nei ruoli apicali. Il 2024 ha registrato comunque un dato positivo nell’ambito della sanità e dell’istruzione. In particolare, proprio per quanto riguarda le carriere universitarie, lo scorso anno ha visto un aumento del numero delle iscritte ai corsi universitari e delle laureate, ma la carriera accademica resta difficile e docenti e rettrici sono ancora poche.
Un dato in particolare rende evidente la disparità di genere nel mondo accademico: su 85 partecipanti alla Conferenza dei rettori delle università italiane (Crui) le donne sono solo 17. L’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca) sottolinea che i maggiori ostacoli si incontrano nei ruoli apicali. Quanto si parla di questo fenomeno in Università?
“Se ne parla, e in particolare la Statale di Milano ha una storia di ricerca e di didattica sul tema della parità di genere. Nel nostro Ateneo, infatti, ci occupiamo del tema e di tutte le sue declinazioni già da 20 anni circa. È un Ateneo che, come detto, ha una storia in questo settore, soprattutto nell’ambito della facoltà di Scienze politiche, con docenti di rilievo, come per esempio Bianca Beccalli e Marilisa D’Amico. Prestiamo sempre molta attenzione in particolare al bilancio di genere, che ci fornisce moltissimi dati in relazione alla parità nei ruoli all’interno dell’Ateneo. Allo stesso modo, lavoriamo con molta cura anche sul Gender Equality Plan. Ci occupiamo del fenomeno anche più ampiamente all’interno della società. Spesso altre realtà tengono convegni e iniziative su queste tematiche che noi ospitiamo in Statale. Ce ne occupiamo ampiamente nella convinzione che un Ateneo, proprio perché ha un ruolo formativo ha una responsabilità ulteriore rispetto ad altre realtà”.
Il cosiddetto “tetto di cristallo” è l’insieme degli ostacoli che si incontrano nella fase di avanzamento della carriera. Ha trovato questi impedimenti durante il suo percorso accademico?
“Il mondo universitario, almeno quello che ho conosciuto io attraverso la mia esperienza personale, è un po’ più tutelato e tutelante rispetto ad altri contesti del mondo professionale perché si procede per concorsi pubblici, però senza dubbio anche in questa realtà si inserisce il tema fondamentale della conciliazione vita privata-lavoro. Io ho una famiglia, un figlio, quindi è chiaro che conciliare la necessità di essere presenti sul lavoro con la cura di un figlio non è sempre semplice. Ritengo ci sia tanto bisogno di interventi che possano facilitare questo binomio. Tutti i dati ci dicono infatti che è proprio quando si crea la famiglia che c’è una battuta d’arresto nella carriera femminile: le nostre laureate sembrano avere gli stessi tempi di inserimento lavorativo dei loro colleghi uomini, poi, però, si creano via via dei rallentamenti a causa della difficoltà di conciliare la vita privata con il lavoro, difficoltà che spesso non si presenta solo nel momento della maternità, ma anche più avanti negli anni, quando per esempio ci si prende cura di un genitore anziano e/o malato”.
In dieci anni la percentuale di rettrici è aumentata del 4,6%. Ritiene sia abbastanza? Si può fare di più?
“Ritengo che, da un lato, ci sarà una sempre maggiore presenza delle donne nei ruoli apicali, e non solo all’interno degli Atenei, e questo è anche diretta conseguenza del fatto che sempre più donne si laureano anche in ambiti che fino a 20 anni fa sembravano preclusi al mondo femminile. Allo stesso modo, però, bisogna stare attenti a non dare mai per scontati i nostri diritti, perché abbiamo lottato per ottenerli ma non dobbiamo mai smettere di farlo per difenderli e mantenerli. Quindi, rispetto ad un aumento delle presenze femminili nei vertici sono moderatamente ottimista”.
Questo gap aumenta nell’ambito delle discipline Stem, da tempo quasi esclusivamente appannaggio maschile. L’università può fare, o sta già facendo, qualcosa per aumentare la partecipazione delle studentesse e ricercatrici nel settore?
“Su questo tema siamo molti attivi già nelle scuole grazie alle nostre azioni d’orientamento. Infatti abbiamo contatti con tantissime scuole e in particolare, nell’ambito di uno dei progetti del Pnrr sulla transizione scuola-Università, siamo stati capofila di una rete con altri Atenei e abbiamo raggiunto tantissimi studenti delle scuole superiori, lavorando molto anche sul tema delle Stem, diffondendo il messaggio che sono per tutti. Negli ultimi anni si nota un fenomeno un po’ diverso, ci sono, cioè, alcune discipline Stem che registrano moltissime donne, e altre, invece, molte meno. Ad Informatica, per esempio, abbiamo ancora un pubblico prevalentemente maschile mentre nelle Bios Scienze, Biologia, Medicina e Veterinaria, la maggior parte degli immatricolati sono donne. Qui il tema è cosa succede poi a livello professionale. Tornando all’esempio della facoltà di Medicina, le donne medico sono tantissime, ma sono poche quelle leader nella sanità, poche diventano primarie. Per questo di recente abbiamo attivato un Osservatorio chiamato Donne leader in sanità (Leads) per fornire così al decisore politico i dati del fenomeno: pur con un’ampia presenza femminile ci sono meno ruoli di leadership. Quindi stiamo lavorando da un lato per rendere le discipline Stem aperte a tutti e, dall’altro, per assicurare questa parità anche dopo la laurea, a livello professionale”.
Più in generale, ritiene che le difficoltà per una donna siano diretta conseguenza della mancanza di politiche adeguate, per esempio i pochi asili nido pubblici a disposizione, che agevolino lo sviluppo di un maggiore equilibrio tra lavoro e vita privata e familiare, essendo ancora quest’ultima troppo spesso relegata alle sole cure femminili?
“Sì, certamente. Ritengo che queste siano misure utili, gli asili pubblici e anche altri interventi che possano favorire il rientro dalla maternità. UniMiLa Statale, ad esempio, ha bandito negli anni scorsi dei finanziamenti alla ricerca dedicati alle giovane madri proprio con l’obiettivo di farle rientrare dalla maternità, perché chiaramente la loro ricerca in quel periodo si ferma. Altra cosa importante è quella di creare anche luoghi di lavoro che possano favorire questo rientro. Per esempio, alcuni laboratori di ricerca non sono sempre accessibili nel periodo dell’allattamento, per tutelare la salute della madre, ma ci siamo attivati affinchè appunto si possa continuare a lavorare, e quindi accedere ai laboratori anche durante la gravidanza e poi l’allattamento, insomma lavorare sempre in sicurezza cosi da evitare momenti prolungati di interruzione dell’impiego. Anche lo smart working può essere usato come misura di supporto alla conciliazione vita privata-lavoro. Ovviamente un’attenzione particolare merita anche il problema del gap salariale: dalle indagini occupazionali viene fuori che a 3-5 anni dalla laurea ancora in certi settori le donne vengono pagate meno degli uomini per fare lo stesso lavoro. Sul tema, quindi, c’è ancora tanto lavoro da fare, e dobbiamo farlo insieme: Università e Istituzioni ”.
Nelle Isole il divario cresce. Secondo lei, e in base alla sua esperienza, il fattore geografico acuisce le differenze?
“Il fattore geografico incide nel livello di occupazione nel suo complesso e quindi ancora di più sulle donne, nelle Regioni dove c’è maggiore difficoltà a trovare lavoro in generale ne consegue un aumento ulteriore di difficoltà per le donne. E i temi di cui abbiamo parlato prima, quindi gli interventi, le misure di supporto, anche a livello istituzionale, pensati per dare la possibilità, soprattutto alle donne, di poter lavorare, sono doppiamente necessarie in queste aree più sofferenti ”.
Gli studi di genere, sempre più presenti nei programmi didattici, possono invertire la rotta?
“Sicuramente aiutano ad aumentare la consapevolezza nei giovani in relazione a queste tematiche. Poi è altrettanto chiaro che i cambiamenti culturali sono abbastanza lenti ed è difficile misurarli nell’immediato. Premesso questo, però, io credo che i dati dimostrano che le nuove generazioni si approcciano in modo diverso al tema della parità, quindi parlarne con i ragazzi e inserire gli studi di genere nei programmi didattici serve a tutti per avere maggiore consapevolezza del fenomeno, condividendone ricerche, dati, sondaggi, perché sono sempre i dati che spiegano la portata di un fenomeno. Così facendo si diffonde, allo stesso tempo, la fiducia sull’uso del metodo scientifico che, in un’ epoca come la nostra ricca di fake news, diventa fondamentale, non soltanto nelle materie propriamente scientifiche ma anche negli studi di tipo sociologico, come il caso degli studi di genere”.