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S come Silenzio

S come Silenzio
Il silenzio (immagine creata con IA)

Il “silenzio” eccede come pochi altri termini i tentativi del nostro linguaggio di categorizzarlo, governarlo, ricondurlo a una qualche unità

Le pagine dedicate al silenzio dalla filosofia, dalla letteratura, dalla poesia sono sterminate, tanto è radicale e profonda questa particolare esperienza umana. Parola densa di significati, “silenzio” eccede come pochi altri termini i tentativi del nostro linguaggio di categorizzarlo, governarlo, ricondurlo a una qualche unità.

Coglie nel segno Emily Dickinson:
Il Silenzio è tutto ciò che temiamo.
C’è Riscatto in una Voce
Ma il Silenzio è Infinità.
In sé non ha un volto.

Se stiamo al tracciato etimologico e semantico, “silenzio” rinvia alla radice indoeuropea si-, da cui i verbi greci sigáo/sighê o siopáo/siopê, il latino sileo e l’alto-tedesco swigen (schweigen), con il significato di “quiete, calma, pace”, con una ricchissima valenza interiore rispetto, per esempio, al tacere come mera assenza di comunicazione. Se stiamo poi all’interpretazione del grammatico latino del II secolo d.C., Sesto Pompeo Festo, la s prolungata (sss) rinvia alla ferma richiesta di tacere; mentre un’altra interpretazione fa riferimento al termine sinomi o sinami che richiama il sanscrito “legare”, cioè il silenzio come legame sociale, nella misura in cui si ascoltano gli altri, oppure come espressione religiosa, un canale privilegiato di comunicazione con il divino, l’ascolto silenzioso della sua parola.

A ogni modo, al di là di queste annotazioni generali, mi preme evidenziare alcuni paesaggi del silenzio. C’è una versione del silenzio come esperienza umbratile, cruda, implacabile, poiché, di fronte alla chance, all’occasione, all’opportunità di fare il bene, ci si è sottratti per paura, vigliaccheria, mancanza di passione. Penso, per esempio, al don Marignan di “Plenilunio” di Maupassant, a uno dei racconti di “Gente di Dublino” di Joyce (la parte finale di “Un fatto doloroso”) e ancora alle pagine conclusive di “Ricordi dal sottosuolo” di Dostoevskij.

C’è poi un’altra grande forma del silenzio, sapere quando sospendere la parola per aprire un mondo all’immaginazione di chi ascolta, poiché qualsiasi parola non riuscirebbe a esaurire tanta ricchezza d’anima:

Oggi non era giorno di parole
con mire di poesie o di discorsi
né c’era strada che fosse nostra.
A definirci bastava solo un atto,
e visto che a parole non mi salvo,
parla per me, silenzio, ch’io non posso.

(José Saramago)

Così come c’è un silenzio che rilancia, rinvigorisce e dilata sé stesso, incorporando le brevi interruzioni prodotte da qualche suono o da qualche voce. “L’edera” di Grazia Deledda ci consegna, in questo senso, una pagina esemplare:

E nel silenzio profondo non si sentiva più neppure il canto dei grilli, né quello dell’usignuolo che ogni notte veniva nel bosco in fondo all’orto. La furia dell’uragano aveva spento anche la loro voce. E pareva che gli abitanti del villaggio, nero ed umido sotto la luna, fossero tutti scomparsi come i loro leggendari vicini del paese distrutto. Ma questo silenzio, questa morte di tutte le cose, invece di calmare Annesa la eccitarono ancora […]. Di tratto in tratto risonava nella straducola qualche passo di cavallo stanco; poi il silenzio regnava più intenso.