La Sicilia è tra i territori con l’incidenza più alta d’Italia rispetto all’infezione da HIV. Il dato emerge dal Centro Operativo Aids dell’Istituto Superiore di Sanità. A crescere sono i numeri di tutto il Paese, segno di come il virus continui a diffondersi in modo significativo soprattutto tra le fasce d’età più giovani. La vera rivoluzione è però rappresentata dalle terapie long-acting.
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Il virus non è sparito: semplicemente, per molti è tornato a non fare notizia. Eppure i numeri parlano chiaro: nel 2023 in Italia sono state segnalate 2.349 nuove diagnosi di infezione da HIV e 532 nuove diagnosi di AIDS. Segnale in entrambi i casi diagnosi spesso tardive e di una sorveglianza che ha pagato il prezzo della pandemia.
Sono cifre che riportano l’epidemia verso i livelli pre-COVID e che obbligano a domandarsi perché, dopo decenni di progressi terapeutici, il virus continui a circolare con vigore in certe aree del paese. Tra queste, c’è soprattutto la Sicilia. Se la media nazionale è di 4 nuovi casi ogni 100mila abitanti, ci sono però regioni dove il problema è ancor più acuito da fattori contingenti. La Sicilia è infatti tra i territori con l’incidenza più alta d’Italia. Un impatto del virus superiore anche a regioni come la Lombardia, che contano più del doppio degli abitanti siciliani.
Nell’Isola la cultura della prevenzione presenta ritardi strutturali che si traducono in test non eseguiti, diagnosi tardive e, soprattutto, in una percezione distorta del rischio. Le rilevazioni regionali mostrano una crescita dell’incidenza delle nuove diagnosi che impone interventi mirati: dalla promozione del test nei servizi territoriali all’allargamento dell’offerta di PrEP e, elemento cruciale, alla diffusione delle nuove terapie long-acting che stanno cambiando la vita delle persone con HIV.
Il quadro nazionale
Il quadro nazionale aggiornato dal Centro Operativo AIDS dell’Istituto Superiore di Sanità è nitido e, per alcuni versi, sorprendente: dopo il calo dovuto all’interruzione delle attività sanitarie e di sorveglianza durante la pandemia, nel 2023 il numero di nuove diagnosi si è riavvicinato al 2019.
Le 2.349 nuove infezioni raccontano di catene di trasmissione potenzialmente ancora attive. Le 532 nuove diagnosi di AIDS sono un indicatore allarmante perché segnalano diagnosi arrivate quando la malattia è già in fase avanzata.
A livello interpretativo, due fenomeni si sovrappongono: da un lato la ripresa delle attività di testing e della sorveglianza dopo la fase più acuta del COVID; dall’altro la persistenza di ritardi diagnostici e di comportamenti a rischio non intercettati.
Non è una questione di ignoranza assoluta: è una rete di fragilità fatta di scarsa offerta di servizi locali, di informazione insufficiente, di difficoltà d’accesso per fasce della popolazione più isolate o marginalizzate.
Chi si infetta oggi: demografia e modi di trasmissione
Il volto dell’infezione è cambiato rispetto agli anni Ottanta e Novanta: oggi, in Italia, la maggioranza delle nuove diagnosi si concentra in adulti giovani e in età adulta precoce. Le fasce più colpite sono i maschi tra i 30 e i 39 anni e le donne tra i 25 e i 29 anni.
La via sessuale è quella prevalente: circa l’86% delle nuove infezioni è legato a rapporti sessuali. La ripartizione per modalità — che mette in crisi categorie stereotipate — mostra come il virus non sia limitato a “gruppi” ma circoli trasversalmente nella popolazione. Una quota significativa delle nuove diagnosi riguarda uomini che fanno sesso con uomini (MsM), ma vi sono percentuali rilevanti anche tra maschi e femmine eterosessuali.
I bassi livelli di linfociti CD4 e cariche virali elevate sono indicatori di diagnosi tardive, con tutte le implicazioni cliniche e sociali che ne derivano. Questo innesta una spirale in cui una diagnosi tardiva significa cura più complessa, costi sanitari più pesanti e, nelle fasi iniziali prima della diagnosi, un periodo di possibile trasmissione non intercettata.
La situazione in Sicilia
In Sicilia il ritratto è più sfumato ma altrettanto preoccupante. A livelli istituzionali, la sorveglianza regionale evidenzia che molti casi continuano a emergere in ritardo, e che gli ostacoli all’accesso al test sono ancora radicati.
Alcuni dati — raccolti dalle associazioni che fanno attività di testing e informazione — mostrano come tra le donne raggiunte dalle campagne di sensibilizzazione una quota elevata non avesse mai svolto prima il test per l’HIV.
Secondo la Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids, proprio tra le donne oltre il 50% non ha mai effettuato un test; quasi il 60% non ha invece utilizzato il profilattico durante l’ultimo rapporto sessuale avuto.
Possibilità di contagio che aumentano in maniera esponenziale tra chi ha rapporti occasionali con partner diversi, chi vive in piccoli centri, chi teme il giudizio familiare o sociale, spesso rinuncia a cercare informazioni o a sottoporsi al test.
In città come Palermo, Catania o Messina esistono servizi regionali e centri di malattie infettive aperti al pubblico, ma il problema resta il tabù dell’accesso. Il risultato è un gap che pesa sulla capacità complessiva della regione di intercettare in tempo reale i nuovi contagi.
Dietro le cifre ci sono anche storie di educazione sessuale insufficiente nelle scuole e di campagne di prevenzione intermittenti. Molti giovani non usano il preservativo con sistematicità e non pensano al test come a una routine di salute.
Le indagini condotte dalle associazioni attive nella promozione della sensibilizzazione al fenomeno, mostrano che, tra i giovani intervistati, una percentuale rilevante non usa il profilattico con regolarità e molti dichiarano di non avere mai effettuato il test.
La vera rivoluzione: terapie long-acting e PrEP iniettabile
Due novità mediche possono aiutare a combattere la diffusione del virus: le terapie antiretrovirali long-acting per il trattamento e la PrEP iniettabile per la prevenzione. Per il trattamento, esistono regimi iniettabili a lunga durata che combinano cabotegravir e rilpivirina: dopo una fase iniziale orale, le iniezioni intramuscolari possono essere somministrate ogni quattro o otto settimane, sostituendo il ciclo di pillole quotidiane.
Per la prevenzione, cabotegravir long-acting è approvato nella forma iniettabile come opzione di PrEP: somministrato ogni due mesi, ha dimostrato in studi clinici di offrire una protezione superiore a quella della PrEP orale tradizionale in popolazioni con elevato rischio di esposizione e con problemi di aderenza.
Una rivoluzione silenziosa che permette di superare un handicap sociale: ricordarsi di una pillola ogni giorno è un vincolo che può diventare barriera — per stigma o dimenticanza – meno l’iniezione bimestrale, che sposta la responsabilità sul servizio sanitario.
Gli studi HPTN-083 e HPTN-084 hanno mostrato che la PrEP con cabotegravir long-acting riduce in modo significativo il rischio di acquisizione di HIV rispetto alla PrEP orale con tenofovir/emtricitabina, con riduzioni che in sottogruppi sono state molto rilevanti.

