L’agenda rossa del dottor Paolo Borsellino forse sottratta per evitare che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage.
Depositate ieri in cancelleria le motivazioni della sentenza emessa nel luglio dello scorso anno dal Tribunale di Caltanissetta relative al processo “Bo Mario + 2”, il cosiddetto processo “depistaggio” relativo alla strage di via d’Amelio.
Sotto processo i tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, ex appartenenti al pool incaricato di indagare sulle stragi del ’92, imputati di calunnia aggravata dal favoreggiamento nei confronti di Cosa nostra. Caduta l’aggravante, era sopraggiunta anche la prescrizione del reato di calunnia. Nella circostanza, la Corte d’assise di Caltanissetta aveva dichiarato prescritte le accuse contestate ai poliziotti Mario Bo e Fabrizio Mattei e aveva assolto il terzo imputato, Michele Ribaudo.
La sentenza sulla strage di via d’Amelio, il ruolo di Arnaldo La Barbera
Nelle quasi 1500 pagine si legge che “Non vi è dubbio alcuno che (l’ex dirigente della Squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera capo del gruppo investigativo Falcone e Borsellino, ndr) fu interprete di un modo di svolgere le indagini di polizia giudiziaria in contrasto, non solo oggi ma anche nel tempo, con gli stessi dettami costituzionali prima ancora che con la legge» e che nel farlo, La Barbera “pose consapevolmente in essere una lunga serie di forzature, abusi e condotte certamente dotate di rilevanza penale”. Tuttavia, si precisa che “gli elementi probatori analizzati non consentono di ritenere che La Barbera fosse concorrente esterno all’associazione mafiosa o che l’abbia agevolata, favorendo il perdurare dell’occultamento delle convergenze dell’associazione con soggetti o di gruppi di potere interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino e dei poliziotti della sua scorta”. I giudici che si sono occupati della strage di via d’Amelio, sempre a proposito di La Barbera, ritengono che fosse “un anello intermedio di quella catena, a cui sarebbe stato importante risalire per poter apprendere appieno scopi e obiettivi dell’attività di cui si discute”.
I giudici riconoscono come la strage di via D’Amelio ponga “un tema fondamentale, quello della verità nascosta, o meglio non completamente disvelata. Il collegio ritiene che il diritto alla verità possa definirsi un fondamentale diritto della persona umana nell’ambito del quale si fondono sia la prospettiva individuale che quella collettiva” e che il processo “si colloca a distanza di circa 30 anni dalla strage di via D’Amelio e sconta dei limiti strutturali non oltrepassabili poiché più ci si allontana dai fatti e più è difficile recuperare il tempo perduto”.
L’inattendibilità di Scarantino
L’ex pentito Vincenzo Scarantino “mente dal 1994. Ѐ un mentitore di professione”, scrivono i giudici del tribunale di Caltanissetta e aggiungono che “a distanza di quasi 30 anni, (Scarantino, ndr) ha deliberatamente deciso di continuare a offrire ricostruzioni arbitrarie, ondivaghe e false” e ha “prospettato una ricostruzione dei fatti che non può coincidere con la realtà, soprattutto nella misura in cui ha attribuito in toto ad Arnaldo La Barbera in primis e ai suoi uomini poi, la paternità di tutta una serie di dichiarazioni accusatorie che altro non potevano essere se non il frutto dei margini di autonomia che per scelta o per necessità gli vennero lasciati”.
Non tanto, quindi, “una prova scivolosa da maneggiare con cautela, Scarantino rappresenta una prova insidiosa dalla quale è necessario prescindere a meno di non rimanere ostaggio delle altalene dichiarative dell’ex falso collaboratore. Proprio alla luce della sua costante ambiguità dichiarativa, risulta praticamente impossibile discernere quali siano le singole circostanze effettivamente suggerite e quali siano frutto della personale iniziativa, con la conseguenza che non è possibile attribuire con sicurezza una condotta ad un soggetto piuttosto che ad un altro”. In più, i giudici aggiungono che “la tendenza al mendacio condiziona irreversibilmente la possibilità di valorizzare le sue dichiarazioni accusatorie nei confronti degli imputati rispetto alle quali è improponibile pensare di potere estrarre, con la certezza che richiede l’odierna sede, elementi di verità”.
Le motivazioni della sentenza sulla strage di via d’Amelio, il mistero dell’agenda rossa
I giudici scrivono che “non sono stati ancora raccolti elementi chiarificatori in grado di dipanare, in maniera definitiva, la matassa relativa alle modalità della sparizione dell’agenda rossa del magistrato (certamente non sottratta da appartenenti a Cosa nostra), che si sarebbe rivelata di fondamentale importanza per lo sviluppo delle indagini sulle vicende stragiste (…) già nell’immediatezza della strage, attorno all’automobile blindata del magistrato ucciso, vi erano una pluralità di persone in cerca della sua borsa e di quello che la stessa conteneva, ivi compresi alcuni appartenenti ai Servizi Segreti” e che “gli elementi in capo non consentono l’esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda senza cadere nella pletora delle alternative logicamente possibili, ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario e opportuno sottrarre”.
Non fu Cosa nostra a sottrarre l’agenda rossa
È esclusa la responsabilità di Cosa nostra nella sottrazione dell’agenda rossa del dottor Paolo Borsellino “a meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di esponenti delle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile a un’attività materiale di Cosa nostra” e che sussistono dei punti fermi sulla “esistenza dell’agenda rossa”, sul “contenuto dell’agenda (cfr. pagg. 824- 825 sentenza di primo processo c.d. Borsellino Quater)”, sulla “presenza dell’agenda nella borsa”, sul “possesso della borsa nelle mani di Giovanni Arcangioli” e sulla “ricomparsa della borsa stessa, in circostanze non compiutamente chiarite, nell’ufficio del dottor Arnaldo La Barbera”.
Chi organizzò la strage di via d’Amelio?
I giudici ritengono concreta “la tesi della partecipazione morale e materiale alla strage di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere interessati all’eliminazione di Borsellino (…) Un intervento così invasivo, tempestivo (e purtroppo efficace) nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire il movente dell’eccidio – si legge sempre testualmente – certifica la necessità per soggetti esterni a cosa nostra di intervenire per alterare il quadro delle investigazioni, evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage (che si aggiungono, come già detto a quella mafiosa) e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di via D’Amelio”.
“Troppe ombre, silenzi e amnesie dagli uomini delle istituzioni” scrivono i giudici.